In questi mesi estivi il cinema newyorkese sta offrendo degli ottimi documentari. Tra questi RBG, il

tributo a Ruth Bader Ginsburg, straordinaria ottantaquattrenne Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. The King, molto più di un biopic su Elvis Presley: un on-the-road attraverso gli Stati Uniti, la storia americana del secondo ‘900 e la vita del Re del rock a bordo della sua Rolls Royce, un viaggio dove la fine triste del cantante diventa metafora del crollo del sogno americano. E ancora Three Identical Strangers, la storia incredibile dei tre gemelli separati alla nascita, riuniti dopo diciotto anni nella New York degli anni ‘80: una vicenda in cui dietro la fiaba si nasconde l’ombra del complotto.
Quanto a cinema di finzione, tuttavia, i titoli gustosi, fino alla settimana scorsa, scarseggiavano. Poi, la settimana scorsa, ecco la première di Sorry to Bother You, opera prima di Boots Riley, rapper dei The Coup di Chicago, con un passato di militanza anticapitalista: un oggetto non facilmente identificabile che si muove fra la satira surreale e la critica nei confronti dello status quo sociale, razziale, economico. Finalmente un titolo gustoso.

Nel talk che si è tenuto al Lincoln Center, martedì 17 luglio, talmente affollato che molte persone non sono riuscite a entrare, il regista ha definito il suo film “una commedia nera intrisa di realismo magico, che pesca nella science-fiction e si posiziona nel telemarketing”. A questa descrizione, ci piace aggiungere un riferimento al distopico e al demenziale, due elementi che, insieme agli altri, compongono un corpo cinematografico assolutamente unico nel suo genere. Se spingersi a dire che Riley inventa un nuovo genere tout court è prematuro, possiamo certamente affermare che il regista ha un suo genere. Il che, in un panorama di scimmiottatori dilaganti, ci pare già molto.

Siamo a Oakland, in un imprecisato presente. L’afroamericano Cassius “Cash” Green, interpretato con stralunata efficacia da Lakeith Stanfield, è uno squattrinato millennial alla disperata ricerca di un impiego. Pur di lavorare, farebbe carte false. Premi falsi, nel suo caso, nel senso che falsifica trofei e targhe “Impiegato dell’anno”. E “fortuna” vuole che lo assumano in una società di telemarketing.

Inizialmente Cassius davvero non si vede nel ruolo. Ma un collega — Danny Glover — lo sprona a fare “la voce da bianco” e gli assicura che, con quella, riuscirà a vendere molto di più che con la voce da nero remissivo. La svolta. Cassius, con la voce da bianco, riesce a vendere e vendere fino ad aggiudicarsi la promozione, diventare un “Power Caller” e ascendere ai piani alti della società.
Dal garage sgangherato dello zio, Cassius finisce a vivere in un super loft, Maserati sotto il sedere e guardaroba firmato nell’armadio. Ma non tutto è oro quello che luccica. Cassius scopre che questa società di telemarketing per cui sta lavorando altri non è che la WorryFree, una compagnia che vende manovalanza di schiavi, facendosi passare per una specie di colonia alternativa gestita dal CEO Steve Lift — un cocainomane assai flippato interpretato da Armie Hammer. La WorryFree rappresenta tutto ciò contro cui Cassius, la sua compagna artista Detroit — una convincente Tessa Thompson — e i loro compagni del sindacato si sono sempre scagliati.
Non sveliamo troppo per non rovinare il gusto della sorpresa, ma Cassius farà una scoperta che svolterà il film in un modo assolutamente imprevedibile, portandolo nella dimensione fantasy. Diciamo solo che la WorryFree trova il modo per tramutare gli uomini in esseri fra l’umano e l’equino… Ciò che succederà da lì in poi è riservato agli spettatori che decideranno d’imbarcarsi in questo viaggio esilarante e scomodo che è Sorry to Bother You.

Riley riesce a mantenere un equilibrio fra il non prendere tutto troppo sul serio — e non farlo prendere a noi — e il restituire, attraverso il comico-distopico, una visione del mondo tremendamente realistica, esprimendo al contempo la preoccupazione verso le derive assurde raggiunte dal capitalismo spinto del terzo millennio.
Il risultato è un film inventivo, sbarellato, politicamente meravigliosamente scorretto, infarcito di dialoghi al sapor di Tarantino, battute demenziali lebowskiane, e delle scene di acuta buffoneria — un party dove i bianchi incitano Cassius a rappare anche se lui non ne è minimamente capace, e Cassius che, per togliersi dall’impasse, se ne esce con un “Nigga shit, nigga shit, nigga nigga shit!” sollevando l’entusiasmo generale dell’idiozia bianca.
Tutto questo però non è fine a se stesso, e la critica che Riley scaglia contro il sistema si allinea a quella dei registi da cinema engagé. Solo che lui non usa la boria o la scuola — o la noia — per farlo. Si costruisce un suo personalissimo linguaggio sopra le righe in cui l’eccesso è il lessico, il grottesco è la sintassi e il dissenso la semantica.

Riguardo al protagonista, Riley ha spiegato: “Volevo creare un personaggio diverso da qualsiasi altro personaggio nero. Volevo che riflettesse su se stesso nello spazio e nel tempo. I personaggi di colore nel cinema pensano sempre a pagare i conti, risolvere problemi pratici, ma in questo modo non riflettono sull’umano, sull’esistenziale”. Riguardo alla scelta — astutissima — della voce bianca, il regista puntualizza: “C’è una specie di recita che i bianchi fanno, che ti porta a credere che tutto vada bene, che tutto sia sotto controllo. Ma per i neri non è così. I neri hanno tutt’un’altra esperienza. Volevo che questa cosa venisse a galla”.

Esteticamente, il film è un’overdose di colori sgargianti, forme eccessive, musica dilagante: tutto sembra, in qualche modo, elevato al quadrato. A questo proposito Riley commenta: “Mi piace raccogliere immagini, e riutilizzarle. La stanza di Cassius, per esempio, è ispirata alla stanza di Bob Marley che avevo visto in un documentario. Il caos è lo stesso. E mi piace, il caos, come nelle opere di Emir Kusturica, un regista che apprezzo molto, specie in Underground e Gatto nero gatto bianco, dove tutto è sproporzionato. Abbiamo fatto lo stesso, con forme e colori, in Sorry to Bother You”.
Incalzato dalla moderatrice Farihah Zaman e dallo special guest Questlove — produttore discografico, batterista e giornalista molto noto sulla scena hip hop americana — Riley ha raccontato la genesi della sceneggiatura. “La scintilla iniziale è arrivata nel 2011. Mi trovavo in una stanza d’albergo, e ho buttato giù la scena dei trofei falsificati da Cassius per farsi assumere. Era capitato, tale e quale, a un mio amico. E funzionava. Mi sono detto, cavolo, sto scrivendo una sceneggiatura! Quando scrivi a volte ti basi su dei cliché. Non puoi avere esperienza di tutto nella vita, allora evochi cose che conosci per sentito dire, o posti che hai visto in fotografia. Poi cerco di infilarci cosa penso filosoficamente del mondo”, e aggiunge, “Scrivo tutti i personaggi come se io fossi loro. E questo mi fa credere che siamo tutti molto più simili fra noi di quel che pensiamo. Comunque non sono bravo a scrivere. Lo faccio, ma è una fatica. Mi prende molto tempo”.
La gestazione della sceneggiatura ha richiesto quattro anni — nei quali Riley ha continuato a portare avanti la musica. “Il difficile è stato trovare qualcuno disposto a leggerla — perché insomma, chi vuole leggere una sceneggiatura di un rapper? Poi un giorno del 2015 ho incontrato per caso Dave Eggers, a San Francisco, e lui ha accettato di leggerla. A suo dire era la miglior sceneggiatura che avesse mai letto. Poi c’è stata la trafila per trovare i produttori disposti a investire nella pellicola. A loro sono arrivato anche grazie al Sundance Lab. Ma tutto il processo, scrittura e produttori, ha richiesto più di cinque anni”.
I frutti si vedono, comunque. Riley è riuscito a ricreare un mondo fittizio, grottesco e surreale che

tuttavia risulta riconoscibilissimo dallo spettatore, e che scopre i punti nevralgici della società americana — capitalismo insano, razzismo e discriminazione. Un po’ quello che aveva fatto George Orwell con La fattoria degli animali, per tracciare un parallelismo letterario che riprende anche l’animalità a cui il film ricorre, in forma equina. Attraverso la satira, Sorry to Bother You critica aspramente il mondo degli americani di oggi (di sempre?), che si lasciano comprare, brutalizzare e sfruttare da un sistema sociale, razzista, markettaro dentro il quale sono imprigionati e asserviti.
Ci sono degli aspetti che potevano forse essere ritoccati, come la lunghezza — un po’ troppo lungo — e il finale, che avrebbe potuto essere ancora più sensazionale. Ma l’impianto, nella sua imprevedibilità e nella sua assurdità, tiene benissimo.
All’uscita del film, qualche giorno fa, ci era capitato di sentire il commento a caldo di uno spettatore. “What the f*ck did I just watch?!”.
La domanda racchiude bene il senso di stupore, spaesamento e vertigine che si manifesta dopo aver visto il film. Ci vuole un po’ di tempo per unire tutti i puntini e digerire quello che si è visto. Ma quale godimento, trovare una voce nuova che non ha paura di far vedere quello che si vede quotidianamente e che non si vuole vedere.
Riley ci fa ridere prendendoci a calci nei denti. Questo fa la vera satira — bene e male, insieme.

Gli abbiamo chiesto se il film arriverà presto in Italia. Il regista ha risposto che stanno provando a trovare un distributore disposto ad accettare la sfida: lo scoglio è la lingua. Come si traduce la voce bianca in italiano? E come si traducono certe specificità linguistico-culturali americane e afroamericane?
Ci auguriamo che la sfida venga raccolta.
“Ho aspettato vent’anni per fare film. Nel frattempo ho accumulato tredici buone idee, due delle quali sono davvero strepitose”, così il regista musicista ha concluso l’incontro, lasciando intravedere tanti progetti in cantiere.
Attendiamo fiduciosi. E vediamo se è nato l’erede di Spike Lee.