Il transnazionalismo non è un nuovo fenomeno, la sua esistenza è stata evidenziata anche nei precedenti periodi di emigrazione. L’odierna globalizzazione ha, però, intensificato nuovi flussi migratori che hanno creato nuove comunità etniche transnazionali. Tanti sono stati e ancora lo sono uomini, donne e famiglie italiane che dalla fine dell’Ottocento per vari motivi: economici, politici, sociali o personali, sono emigrati negli Stati Uniti d’America per costruirsi una vita migliore. Si partiva alla fine dell’Ottocento con la valigia di cartone legata con lo spago, si parte ancora oggi con valigie moderne, IPod e Tablets. Se nel passato si fuggiva dalla miseria, oggi, volontariamente, si parte non tanto per fuggire dalla miseria, bensì dal desiderio di realizzarsi professionalmente. Pare che in Italia ci sono barriere, a volte, insormontabili che ostacolano le proprie ambizioni.

Nell’ultimo decennio tanti giovani italiani, in gran parte istruiti, senza alcuna prospettiva occupazionale, che la recente recessione globale ha ancora di più accentuato, sono andati altrove, un discreto numero è approdato a New York. Secondo dati da me raccolti dal consolato di New York, nel 2015 erano registrati nella lista AIRE senza alcuna cancellazione un totale di 2.615 di cui 1.212 donne e 1.503 uomini. Questi immigrati, in gran parte, fanno parte della cosidetta classe dei “brain-drain” e hanno creato una comunità transnazionale diversa da quella non transnazionale dei vecchi immigrati. La loro è una comunità prettamente di soujourners.
La nuova tecnologia e i moderni trasporti hanno formato una nuova concentrazione di spazio-tempo. Oggi in breve tempo riusciamo a raggiungere spazi diversi, viviamo in uno spazio di flussi, di informazioni. La relazione socio-spaziale ha un impatto in entrambe le comunità: transnazionale e non. Durante le mie conversazioni con tanti immigrati nuovi e vecchi, incontrati in luoghi da loro frequentati, ho cercato, con domande specifiche di raccogliere informazioni circa i motivi del loro trasferimento a New York, sulla loro interazione sociale e se pensano di rientrare in Italia.

Tanti dei nuovi immigrati in gran parte laureati/e, celibi e nubili hanno menzionato tra i motivi pricipali: la critica situazione economica italiana, la mancanza di un mercato del lavoro a tempo pieno, il bisogno di specializzazioni post-laurea e il desiderio di migliorare le loro competenze linguistiche tanto richieste nel mercato del lavoro odierno. I vecchi immigrati anche loro, in gran parte, sono emigrati per migliorare le loro condizioni socio-economiche in cerca di una vita migliore in America.
Nel passaggio dalla società industriale a quella post-industriale con la sua globalizzazione dell’economia, della cultura, sono emerse nuove forme di convivenza e una destrutturazione del tempo nello spazio con un nuovo modo di vivere da cui è emerso un nuovo gruppo sociale che chiamerò, parafrasando il sociologo De Masi, “digitale”. I digitali si distinguono per la loro identificazione con il computer, con la posta elettronica, internet, Skype, WhatsApp, Facebook, Twitter; accettano la convivenza pacifica delle culture, parlano più lingue, amano le novità, l’aumento del tempo libero, apprezzano lo sviluppo tecnologico e scientifico.
Sono diversi dagli “analogici” che non sono inclini all’uso del computer, non apprezzano le innovazioni tecnologiche, i nuovi immigrati sono in gran parte digitali. Quando ho chiesto come interagiscono maggiormente con amici stretti nel tempo libero, quasi tutti hanno detto “faccia a faccia” (quando è possibile) con amici in città, altrimenti via Skype, e-mail, WhatsApp ecc. con amici fuori città. Hanno creato una nuova diaspora di immigrati italiani a New York che mostra tutte le caratteristiche descritte estensivamente da De Masi che io ho sintetizzato. Sono immigrati che allargano la loro interazione sociale oltre la loro piccola diaspora locale, giornalmente immersi in un network audiovisivo come Skype, WhatsApp, video conferenze, Twitter ecc. che li connette alle loro famiglie e amici lontani.

Sono giovani con un capitale umano di rispetto; è una generazione costretta, in questo periodo storico di flessibilità lavorativa, a emigrare altrove in cerca di realizzarsi professionalmente. Quando il loro visto da studente o ricercatore terminerà, saranno costretti a rientrare o restare illegalmente in America in cerca di qualche azienda che li sponsorizzi per legittimare la loro permanenza. Chi non ha beneficiato di borse di studio o dell’aiuto della famiglia in Italia è stato costretto a un lavoro part-time nei ristoranti metropolitani per coprire le spese di vitto e alloggio.
Questi immigrati vivono in quartieri eterogenei, si incontrano spesso con amici in circoli culturali e politici: circoli senza una sede permanente. I loro incontri avvengono sempre in luoghi diversi dove affittano per poche ore un locale per presentazioni di libri o incontri politici che con video conferenze si allargano a circoli di amici in altre città, gli incontri sociali avvengono in qualche pizzeria o abitazioni private. Seguono attentamente la scena politica italiana ma anche quella americana. Cercano di conservare aspetti della cultura italiana, e al tempo stesso, sono aperti allo stile di vita americano. Quello che conta per loro, non è tanto l’assimilazione culturale ma, soprattutto strutturale sperando in un posto di rilievo e ben pagato nella struttura sociale americana. Grazie alla nuova tecnologia hanno creato uno spazio sociale che va oltre il proprio quartiere, città e confini nazionali.
La loro interazione sociale è diversa dalla comunità etnica dei vecchi immigrati che si incontravano e si incontrano ancora, ad eccezione dei più giovani che sono anche loro digitali, nelle loro associazioni paesane o club dove giocano a carte o bocce. E’ li che seguono le partite di calcio del campionato italiano. I loro contatti avvengono faccia a faccia piuttosto che via Skype, WhatsApp. E’ una comunità che opera entro uno spazio sociale ristretto entro il proprio quartiere.

La loro interazione sociale è ristretta a gruppi primari: famiglia, parenti, vicinato. L’associazione da loro frequentata rimpiazza la piazza e il bar del paese. I loro legami sono prettamente affettivi che danno un senso di sicurezza e tutela. E’ una comunità simile alla “gemeinschaft” descritta da Toennies o alla “solidarietà organica” di Durkheim.
La comunità etnica transnazionale dei nuovi immigrati opera entro uno spazio sociale più esteso a gruppi secondari. E’ una interazione sociale che va oltre la famiglia, il vicinato, la propria città. E’ una comunità prevalentemente composta da giovani celibi e nubili, le loro famiglie sono lontani mille miglia. Sono giovani che non hanno un vicinato, un quartiere da difendere. I loro legami vanno oltre la famiglia, gli amici, il vicinato e compatrioti. Ai legami affettivi dei gruppi primari aggiungono legami razionali dei gruppi secondari in uno spazio sociale esteso a legami professionali per soddisfare i propri bisogni e interesse personali. Il loro comportamento è simile alla “gesellschaft” di Toennies e alla “solidarietà meccanica” di Durkheim.
Sia i nuovi immigrati transnazionali che i vecchi immigrati non transnazionali da me contattati hanno mostrato una forte identità italiana. Parecchi dei nuovi immigrati transnazionali sperano che l’Italia promuova nuovi programmi per invogliarti a rientrare e contribuire al progresso italiano con il loro “know-how” appreso in America.