Ogni sabato pomeriggio il club World Friends Chess si dà appuntamento nella biblioteca di Hudson Park a 66 Leroy St., nel cuore del Village, per dedicare un’ora intera agli scacchi, all’amicizia e all’integrazione.
I giocatori sono tutti bambini: molti vivono nel quartiere, altri appartengono a famiglie di rifugiati che sono arrivati negli Stati Uniti, recentemente o già da qualche anno. L’età media dei giocatori è tra i 6 e 10 anni, ma vi è anche un ragazzo siriano di 17 anni che fa parte del club.
Poco prima delle 4 di pomeriggio arrivo in biblioteca e trovo una decina di bambini seduti attorno a dei tavolini intenti a muovere pedine bianche e nere su grandi scacchiere. Sono concentratissimi. “Chess mate!!!” (scacco matto) – grida qualcuno d’improvviso.
Mi introduco a uno dei maestri che insegnano come volontari nel club di scacchi e scopro che tutto il club è gestito su base volontaria. Light Buggiani è stato il primo a proporre l’idea del club. È nato a Roma, ma ha trascorso gran parte della sua vita a New York, dove ha sede la sua scuola di scacchi e matematica. Educational Light School è formata da un gruppo di maestri che insegnano sia nelle scuole newyorchesi che privatamente, soprattutto a bambini e ragazzi.

Light mi racconta come è iniziata l’avventura degli scacchi: “Tanti newyorchesi come me sentono l’esigenza di aiutare i rifugiati, ma spesso non sanno come. Come connettere le famiglie dei rifugiati con la comunità locale? Con gli scacchi è possibile infrangere l’isolamento. A poco poco, col ripetersi degli incontri, si è rotto il ghiaccio e sono nate amicizie tra i bambini e anche tra i loro genitori. Inoltre per i bambini newyorchesi è molto educativo: capiscono che il mondo è più grande e complesso di New York City e che ci sono anche paesi dove essere “bambini” può essere molto diverso, più difficile.”
Light mi spiega che il 60% dei bambini del club è rappresentato da bambini nati a New York e il 40% da bambini rifugiati. La maggior parte dei rifugiati viene dal Centro America, in fuga da paesi come Nicaragua e El Salvador dove dilaga il problema delle gang. Un secondo gruppo è originario del West Africa e Haiti, mentre un terzo viene dalla Siria.
“Fu un mio amico che lavora alle Nazioni Unite che mi mise in contatto con un’associazione di rifugiati newyorchese, la Catholic Charities Community Services. La direttrice accettò immediatamente il mio progetto e in un mesetto l’abbiamo fatto partire. Grazie alla Catholic Charites posso raggiungere le famiglie e anche le altre quattro grandi organizzazioni newyorchesi che lavorano con i rifugiati. Grazie a questo lavoro di network miriamo ad allargare il nostro bacino di utenti e proporre il club anche in altri quartieri più periferici, raggiungendo bambini che hanno difficoltà ad arrivare fino al Village”, mi racconta Light.
Il club World Friend Chess provvede ai biglietti del trasporto in metro, per i bambini e per i loro genitori. I maestri parlano differenti lingue (inglese, spagnolo, francese e arabo). Su base volontaria, ci saranno delle visite da parte di campioni nazionali di scacchi, come il famosissimo Bruce Pandolfini, Maurice Ashley e David MacEnulty, che daranno delle classi “speciali”. Un progetto futuro è quello di dare lezioni d’inglese agli adulti, mentre i loro figli giocano a scacchi. L’obiettivo è creare integrazione e favorire tra le famiglie la nascita di amicizie, che vadano anche al di là di questa ora pomeridiana organizzata dal club.
Ho occasione di parlare con Gladys Valverde, un ragazza messicana sui 25-30 cresciuta a Jersey City, che lavora nel Refugee Resettlement Department dell’associazione Catholic Charities Community Services. Gladys è molto appassionata del club di scacchi. “La mia associazione lavora soprattutto con adulti e teenager, i cosiddetti “unaccompanied minors” (minori non accompagnati), ragazzi adolescenti che arrivano negli Stati Uniti attraversando le frontiere da soli, senza genitori. Abbiamo accolto l’iniziativa di Light con entusiasmo, visto che si rivolge ai bambini.”
L’associazione di Gladys lavora con circa 500 rifugiati all’anno, alcuni sono arrivati da poco, altri invece sono qui da qualche anno e si sono in parte “newyorchizzati.” Sia Gladys che Light fanno riferimento al rischio di isolamento e la paura che è dilagata tra le comunità dopo le ultime elezioni presidenziali. “Piuttosto che chiuderci, proprio ora dovremmo aprirci di più e sviluppare un senso di comunità maggiore. Da questa esigenza è nato il club,” afferma Light.

Ma è ora di iniziare la lezione. Light raduna i bambini che si siedono a terra attorno a un tabellone che rappresenta una scacchiera, con pedine di carta, che il maestro muove per spiegare agli studenti le mosse strategiche. La lezione è interattiva e i bambini fanno a gara per suggerire per primi la migliore mossa per mettere in scacco il re.
Dopo la lezione, che dura una decina di minuti, si aprono le danze degli scacchi. “Vuoi giocare?” mi invita A., circa 8 anni, proveniente dal West Africa. “Certo!” rispondo io.
Un bel gruppetto di bambini si posiziona attorno a noi. Danno consigli, “Muovi qui!”, ridono, commentano, qualcuno muove una mia pedina per mostrarmi una mossa. Resto affascinata dalla passione che questi bimbi mostrano nel giocare a scacchi. “Sei un po’ scarsetta” mi fa uno di loro, con un sorriso furbetto. Sorrido anche io, come potrei negare che gli scacchi non sono il mio forte? “Sono tantissimi i bambini che giocano a scacchi qui a New York” mi dice Light, che, divertito, resta a guardare come le mie pedine nere vengano mangiate una ad una da quelle bianche di A.
“Di dove sei?” – mi chiede A. – “Il tuo è un accento strano”.
“Italia” gli rispondo.
Mi guarda senza dire una parola. Chissà cosa evochi in lui la parola “Italia”. Se sappia dove è localizzata nel mappamondo, rispetto a New York, rispetto al West Africa.
Io sorrido e tra me e me penso che ognuno di noi ha una storia da raccontare, una diversa provenienza, una cultura lontana, ma oggi siamo tutti qui, nel club degli scacchi nel cuore del Village di NYC, senza differenze di età, nazionalità e religione, a giocare, a ridere, a sfidarci e a pensare che il mondo, il nostro mondo, potrebbe essere davvero un bel posto dove vivere, da condividere.