All’inizio della settimana conclusiva del Festival di Cannes, uno dopo l’altro, Yòrgos Lànthimos e Michael Haneke – forse i due nomi più attesi di questo scialbo concorso – hanno presentato i loro film, opere che in maniera molto diversa – e con esiti a mio parere diversissimi – trattano un tema comune: il disfacimento completo della famiglia borghese e l’assenza, al suo interno, dell’assunzione di responsabilità per ciò che l’Europa sta vivendo, oggi. Nessuno dei due riesce, però, a risollevare totalmente le sorti di questa edizione decisamente povera del Festival di Cannes. Il film di Lànthimos è morboso e terribilmente auto-compiaciuto, quello di Haneke è un grande film, anche se inferiore a gli ultimi Amour e Il nastro bianco.
Discreto ma non totalmente convincente il nuovo film di Ruben Östlund, The Square, che prende a sassate la borghesia salottiera europea, senza però essere cattivo fino in fondo.
Ottimo, invece, il ritorno, in Un Certain Regard, di Laurent Cantet.
Ecco le nostre impressioni.
Concorso – The Killing of a Sacred Deer, di Yorgos Lanthimos
Nei miti religiosi e greci accade spesso che un dio assoluto e terribile chieda a un uomo il sacrificio estremo: uccidere il figlio o la figlia. Può avvenire per testarne la fede, come nel celebre esempio di Isacco e Abramo, o per espiare una colpa, come avviene nel mito di Ifigenìa, figlia di Agamennone e Clitennestra, chiesta in sacrificio per placare l’ira di Artemide, irritata per l’uccisione di una cerva da parte del re degli Achei. La storia di Ifigenìa è stata raccontata più volte e con sviluppi narrativi diversi (Euripide e Lucrezio, ad esempio, la salvano, mentre Eschilo la fa morire senza pietà), e ora, in un certo senso, anche il regista greco Yòrgos Lànthimos, incoronato da Alps e The Lobster, ri-racconta il mito a suo modo. Il titolo, riprendendo il crimine di Agamennone, fa riferimento alla colpa commessa in questo caso dal pater familias Steven, un cardiochirurgo interpretato da Colin Farrrell che ha ucciso per “distrazione” un uomo durante un’operazione. Il peso della colpa è stato parzialmente rimosso, ri-iscritto nella quotidianità, declassato a effetto collaterale della professione, ridotto a cliché, a barzelletta («quando succede», è colpa dell’anestesista, dice il chirurgo; colpa del chirurgo, dice l’anestesista). A ricordargli che le azioni hanno sempre una conseguenza, anche se non immediatamente visibile, arriva la ‘maledizione’: non da Artemide, ovviamente, ma dal figlio della vittima, un ragazzino che intima al medico di scegliere se uccidere la moglie (Nicole Kidman) o uno dei due figli, altrimenti tutti e tre moriranno per malattia.
Difficile, però, cogliere in questo nuovo testo di Lanthimos elementi che effettivamente facciano ‘detonare’ riflessioni più profonde, che indichino una prospettiva e che in qualche modo ci riguardino.
L’ineluttabilità del destino? Certo.
L’impossibilità di sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni? Anche.
L’insufficienza di una prospettiva positivistica e scientifica – visibile nei fallimenti medici dell’equipe che cerca di “guarire” l’inspiegabile male dei familiari di Steven – a leggere il mondo? Sicuramente.
Tutto questo, quindi, e niente. La sensazione è che questa ‘tragedia’ infatti si perda, alla fine, in un labirinto di specchi nei quali il regista greco contempla solo se stesso, soffocando la sua opera con un ‘di più‘ di stile e di maniera: l’asfissiante ricerca di quel tono ‘trasognato’ e straniante, le battute surreali e da commedia, la determinazione, insomma, con cui Lànthimos cerca di “fare Lànthimos’, finisce per sterilizzare il film e renderlo solo un’esperienza prescindibile.
Concorso – Happy End, di Michael Haneke
La famiglia disfunzionale allargata di Haneke, invece, risiede a Calais, in uno dei luoghi più contradditori e problematici d’Europa, dove sorge il più vergognoso e surreale dei muri anti-migranti costruiti in questi anni. In questo luogo oscuro, va in scena la “caduta degli dei” del regista austriaco, il de profundis della narrazione simbolica della famiglia tradizionale e forse di qualsiasi “tenuta” relazionale nel mondo occidentale.
Il film inizia in modo scioccante. Dallo schermo di uno smartphone qualcuno filma con freddezza singolari pezzi di vita: un criceto torturato con dei farmaci, una donna depressa, definita dal “filmante” “odiosa” e “causa” dell’abbandono da parte del marito e infine l’overdose di psicofarmaci, fatale per la donna. Subito dopo questo suicidio su smartphone, arriva il crollo di un cantiere, questa volta visto da una camera di sorveglianza. Il mondo va in pezzi, insomma, ma attraverso la mediazione dei display che ci tengono “alla giusta distanza”. Come se Haneke volesse ricordarci che, comodi e sicuri e nascosti dietro ai nostri schermi, siamo spettatori non solo del suo film ma anche del crollo del nostro mondo.
Sta a noi, successivamente nel corso del film, raccogliere e ricomporre i pezzi di questo crollo, per scoprire che appartengono tutti alla famiglia Laurent: a filmare le prime immagini, infatti, era la piccola Eve e la donna suicida era sua madre; il cantiere crollato è quello di famiglia, un nucleo alto-borghese di industriali, che fa capo a George (Trintignant), il patriarca, il nonno disincantato che, uscito direttamente da Amour, vorrebbe “farla finita” per sottrarsi a questo spettacolo orrendo.
Lucidamente episodico, il film è fatto quasi a “gradini”: una sequenza dopo l’altra, scendiamo nell’abisso, accompagnati dal rumore di fondo del perbenismo ipocrita della famiglia Laurent, mentre appena fuori la tragedia dei migranti bussa inascoltata. Con la consueta freddezza e una buona dose di autocitazionismo, Haneke ci fa mettere lo sguardo là dove preferiremmo non guardare.
Concorso – The Square, di Ruben Östlund
Un museo d’arte contemporanea diventa il luogo simbolico del non-sense del mondo: dopo il successo internazionale di Forza Maggiore, Ruben Östlund realizza un film sconnesso, che procedendo per episodi slegati si accanisce sul mondo dell’alta società e soprattutto sul protagonista Christian (ottimamente interpretato dal danese) il direttore del suddetto museo.
La “piazza” del titolo è in realtà un quadrato luminoso, un’installazione in cui i visitatori dovrebbero entrare per riflettere sulla loro uguaglianza. Un’opera ovvia e banale, come Christian, un uomo non cattivo ma “tutta superficie”, una sorta di “cavaliere inesistente”, vanitoso, donnaiolo, elegante, che vive “in posa” e che è in grado di innescare spirali di disastri e fallimenti. Proprio la scarsa malizia di cui è capace Christian lo rende un personaggio interessante: in lui siamo invitati a specchiarci e a riconoscerci. Così facendo, intorno a lui abbiamo l’impressione di navigare in un mare di nulla, che il film dissacra con un’ironia efficace ma a conti fatti forse priva di quella cattiveria necessaria per andare veramente a fondo, cattiveria presente solo in una memorabile sequenza: un artista sedicente provocatore, “l’uomo scimmia”, alla cena di gala del Museo, compie la sua performance, saltando e grugnendo sui tavoli, ma finirà linciato dalla folla perbenista, forte di un ritrovato spirito del branco. È forse l’unica sequenza in cui è assente quella sorta di indulgenza bonaria che è il limite di questo nuovo lavoro di Ruben Östlund.
Concorso – L’atelier, di Laurent Cantet
Dopo la Palma d’oro de La classe nel 2009, Laurent Cantet con L’Atelier torna a occuparsi di contesti educativi: nella città portuale de La Ciotat, vicino a Marsiglia, nel Sud della Francia, alcuni adolescenti partecipano a un workshop con Olivia, una scrittrice di successo. Insieme devono scrivere un romanzo autobiografico per una futura possibile pubblicazione collettiva.
Il più solitario tra loro, Antoine, un ragazzo talentuoso, sensibile e fragile, con simpatie di estrema destra e affascinato dalla violenza gratuita, entra in conflitto con gli altri studenti e con Olivia.
Incalzante e avvincente proprio come La classe, con una combinazione perfetta di camera a mano e dialoghi, L’Atelier è un viaggio alla scoperta della problematicità dell’atto creativo, che, quando sinceramente vissuto, smuove porzioni di inconscio con cui non è semplice fare i conti.