Gli amanti dell’opera lirica newyorchese ricordano con amarezza l’ultima produzione della Traviata presso il Metropolitan Opera Theatre, avvenuta circa un anno fa: la dame aux camélias in abito moderno da portinaia domenicale, il gran mondo maschile parigino in completi neri di lana lucida da autista o impiegati delle pompe funebri; un inspiegabile orologio sempre appeso sul muro. Una catastrofe. Forse è per questo che essi hanno appreso con un misto di aspettativa, di ammirazione e, sì, di invidia, la notizia pervenuta a Manhattan da Roma, che il Teatro dell’Opera della capitale italiana sta silenziosamente preparando uno di quei grandi colpi di scena che solo qualche centinaio di anni di esperienza e di gusto in materia, sia di allestimento scenico che musicale, possono suggerire anche ai teatri più modesti in materia di fondi a disposizione.
Ecco quanto si è saputo. Con un bilancio annuo pari a circa un decimo di quello della Metropolitan Opera (che è di 300 milioni di dollari), l’Opera di Roma si prepara a produrre una Traviata di grandissima classe affidandola alla regista italo-americana Sofia Coppola, di cui è noto il detto: “Se si sta attenti a non superare i preventivi, si può difendere meglio le proprie idee in fatto d’arte”. La scenografia sarà disegnata da Nathan Crowley, noto per la sua creazione scenica del film di fantascienza americano Interstellar. I costumi di Violetta e degli altri protagonisti saranno forniti da Valentino Garavani, meglio noto in tutto il mondo come Valentino. Di chi sia stata l’iniziativa di questa straordinaria collaborazione artistica non è noto. Sofia Coppola, la figlia del grande Francis Ford Coppola, fa l’attrice da quando era bambina, ha diretto film storici di epoca romantica come la deliziosa Maria Antonietta e ha vinto il Leone d’Oro a Venezia. Generalmente scrive anche la sceneggiatura dei suoi film. Di Valentino non occorre parlare.

Nonostante il terribile buco nell’acqua fatto con la Traviata dell’anno scorso, la Metropolitan Opera continua ad ammannire al suo pubblico produzioni indigeribili fondate sulla rappresentazione in veste moderna e la traduzione dei drammi in termini di politica più o meno contemporanea, quando quello che il pubblico vuole è semplicemente il rispetto degli ambienti e delle storie così come erano state immaginate dai compositori e dai librettisti di qualche secolo fa.
Per ritornare a quel tipo di produzione il Met non avrebbe che da ritirare fuori i fondali creati da uno Zeffirelli o da un Otto Schenk, che esso possiede ancora per quasi tutte le maggiori opere, ma tiene religiosamente sempre in cantina. Nella stagione in corso, il peggiore insuccesso dal lato della messinscena è un altro dei capolavori del romanticismo fin di secolo europeo, la Manon Lescaut di Puccini e dell’Abate Prévost, che però è presentata come se fosse al tempo della Francia occupata dai nazisti, con Grieux e Manon che muoiono tra le rovine dei bombardamenti. Una trasposizione giudicata “assurda” e “ridicola” da uno dei maggiori critici del teatro lirico americano, Anthony Tommasini del The New York Times.

Il Metropolitan e il suo amministratore generale, Peter Gelb, debbono uscire da questo giro maniaco di sventramenti e rifacimenti arbitrari delle grandi storie romantiche della lirica internazionale se vogliono mettere fine al lento slittamento verso l’irrilevanza di quello che, per altri versi, è il più grande teatro d’opera del mondo. Problemi di altra natura stanno, d’altra parte, aiutando anch’essi per la scesa, come la tensione interna creata dall’incerta sorte del suo direttore d’orchestra e direttore musicale, il settantaduenne James Levine, che da quarant’anni domina almeno quanto Gelb la vita del teatro. Il fatto è che il grande e povero Levine soffre del morbo di Parkinson, ma insiste a rimanere sul podio nonostante la malattia – confermata ufficialmente dal teatro, con una mossa diretta ovviamente, ma inutilmente all’interessato per fargli capire che l’era del pensionamento è giunta – abbia come suo sintomo tipico quello di fargli tremare le mani, con comprensibile smarrimento e mormorii di protesta da parte dell’orchestra. Tra i successori di cui si parla, ci sono l’italiano Fabio Luisi, che musicalmente ha salvato molte delle ultime produzioni, tra cui la suddetta Manon pucciniana, ma che invece sembra riluttante a rinnovare il suo contratto con il teatro, e il canadese Yannick Nézet-Séguin, eccellente direttore dell’orchestra di Filadelfia.