Ci sono libri che incidono nella vita delle persone come uragani, come terremoti, come nutrimento, come oasi nel deserto, come malattie, come medicine, come benedizioni oppure come maledizioni. Davvero, sono convinta che ci siano libri che possono cambiare profondamente la vita interiore e, perché no, anche le scelte concrete di ogni lettore. Incidere su certe parti della personalità o semplicemente risvegliarle. È il senso più profondo dell’identificazione con i personaggi. Il trasporto che si prova per il protagonista di un libro, non è provocato, banalmente, solo dal riconoscimento di ciò che siamo già o di aspetti della nostra personalità. Quello che più profondamente ci emoziona è quando riconosciamo gli aspetti nascosti del nostro carattere, i nostri sogni, anche quelli che non abbiamo il coraggio di sognare ad occhi aperti, le nostre paure, le nostre paranoie, le nostre fragilità. Pirandello diceva: “ciò che conosciamo di noi è solamente una parte e forse piccolissima di ciò che siamo a nostra insaputa”. Ecco, io credo che i libri possano renderci più consapevoli, rivelarci parti di noi che altrimenti rimarrebbero oscure a noi stessi. Ciò che più ci fa battere il cuore è quando troviamo in un libro una proiezione di noi stessi ovvero ciò che vorremmo diventare o ciò che abbiamo paura di diventare. O almeno, per me è sempre stato così. Mi emozionano profondamente solo i libri che in qualche modo parlano di me e, in parte, io divento quei libri.
Chissà chi sarei ora se non fossi stata folgorata da Le avventure della ragazza cattiva, ben prima che l’autore Mario Vargas Llosa vincesse uno dei più meritati Nobel per la letteratura! A volte non capisco davvero, dove inizi e dove finisca la mia identificazione con la niña mala: quanto c’è di me in lei da farmela amare così tanto e quanto c’è di lei in me, voglio dire, quanto ho rubato da quel personaggio, in certe acrobazie esistenziali? Il nomadismo come unico punto fermo, il reinventare da zero vite sempre più incredibili, il sentirsi di tutti i posti del mondo e di nessuno, il mantenere sempre vive una dolcezza e una crudeltà feroci tipiche dell’infanzia, l’incoscienza, sono tutti elementi che indubbiamente facevano già parte della mia personalità, ma leggere quel libro mi ha dato forza e coraggio per esprimerli in maniera più piena. Se qualcuno poteva immaginare e scrivere di una donna del genere, allora io potevo avere il coraggio di esserlo, mi sono detta. Così quel libro ha segnato il mio destino.

“Hai 34 anni, non potrai giocare a fare la niña mala ancora per molto”, mi ha detto una persona che mi vuole molto bene in un goffo tentativo di trattenermi prima che io partissi per gli Stati Uniti. “Perché no?”, gli ho risposto ed eccomi qua, dopo qualche mese, felice e contenta della mia più recente acrobazia esistenziale. Mi è andata bene anche stavolta: in poco tempo mi sono costruita delle abitudini, delle amicizie e soprattutto ho un bar di riferimento di cui, prima o poi, dovrò proprio parlarvi. Ecco, questa cosa del bar, per esempio, indubbiamente mi piace molto ed è un meccanismo che ripeto in ogni città in cui mi stabilisco. Ho il mio bar a Milano, ne ho uno a Roma, ne ho più di uno a Ravenna mentre a Londra ho un barman di riferimento più che un bar. Cambio spesso numero di telefono, ma chi mi conosce, sa dove trovarmi o dove avere mie notizie o dove lasciarmi qualcosa: al mio bar. Si tratta di posti che restano miei, anche se non vivo più nelle città in cui si trovano. Sono posti in cui tornerò sempre, quando sarò di passaggio, posti in cui mi sentirò sempre a casa anche quando non ce l’ho, una casa.
Avrei quest’abitudine di eleggere un bar come mio ufficio e seconda casa anche se non avessi letto Colazione da Tiffany? Ero una ragazzina quando ho letto il capolavoro di Truman Capote e ricordo benissimo di avere pensato che da grande, proprio come la protagonista Holly Golightly, avrei voluto avere un barista che fosse preoccupato per me durante le mie scorribande in giro per il mondo. E quanto ho trovato spiritosa e intelligente l’idea che Holly avesse scelto di specificare la sua condizione di provvisorietà con la scritta “in transito” proprio sul campanello di casa. Holly che poi non era il suo vero nome, come Lavre, il nome con cui mi hanno conosciuta tante persone che nemmeno sanno come mi chiamo all’anagrafe. Holly che sta per Holiday. Quanto c’è di lei in me e quanto di me in lei? Quello che è certo è che da quando sono a New York sento Holly ancora più vicina e nella confusione totale tra libro e film, visto che ho amato tanto entrambi, mi capita spesso, quando “ho le paturnie” di andare in cerca dello spirito di Holly nell’Upper East Side.

New York è stata attraversata da alcuni dei personaggi letterari e cinematografici che più ho amato, tanto che a volte mi viene da chiedermi come mai io ci abbia messo così tanto ad arrivare qui, dove è ambientato il mio immaginario, praticamente da sempre. Non c’è una passeggiata a Central Park in cui io non pensi al mio amatissimo Holden Caulfield, il protagonista del romanzo di formazione di culto Il giovane Holden (lo scrivo così giusto per capirci, ma ho sempre odiato chiamarlo in questo modo, soprattutto perché il titolo originale sarà intraducibile, ma è di per sé una poesia: The catcher in the rye). Ho ripensato a Holden pochi giorni fa, perseguitata dalla solita domanda: quanto della mia forma mentis è influenzata dalle mie letture di riferimento?
Quando sono rientrata dalle vacanze, ho trovato uno spettacolo desolante di montagne di alberi di Natale ammassati lungo le strade, in attesa di essere raccolti e smaltiti (Guarda la gallery sul Rockefeller Center Christmas Tree). Mi si è stretto il cuore e mi sono chiesta: “Ma che fine faranno tutti questi alberi di Natale ora che le feste sono passate?”. Pormi questa domanda mi ha messo addosso una gran malinconia e soprattutto mi ha fatta sentire un po’ Holden Caulfield, cosa che non mi capitava più da parecchio tempo, forse anche perché l’adolescenza l’ho passata da un po’. Insomma, Holden è il tipo di personaggio che si fa sempre domande naif molto poetiche con pochissimo attaccamento alla realtà. La sua domanda più celebre, per cui spesso viene ricordato l’intero libro, visto che in fondo rende perfettamente l’idea dello spirito di Holden, è: “Che fine fanno le anatre di Central Park d’inverno quando il lago ghiaccia?”. Ecco, allo stesso modo, con la stessa malinconia di base, io mi chiedevo che fine potessero fare tutti quegli alberi che fino a poche ore prima avevano riempito di gioia le case dei newyorchesi.

New York per fortuna è una città che ha una risposta a ogni malinconia e così, neanche due ore dopo mi è arrivato un invito a visitare la Suspended Forest dell’artista Michael Neff. In pratica, questo artista ha dato vita a una vera e propria foresta in sospeso, esposta al Knockdown Center nel Queens. Una meraviglia che lascia davvero senza parole. Non è la prima volta che Neff fa una cosa del genere. Per due anni, infatti, ha dato vita alla stessa performance open air lungo uno spazio inutilizzato all’inizio di Metropolitan Avenue a Willamsburg. Questa è la prima volta che l’installazione è stata valorizzata dal trovarsi in un contesto post industriale come quello del Knockdown Center.
Ora rimane solo una domanda a cui rispondere: che fine faranno gli alberi di Natale quando sarà passata l’esibizione di Michael Neff? Chissà se New York avrà una risposta sorprendente e poetica anche per questo. Nel frattempo io Holden Caulfield, la niña mala, Holly Golightly, Margot Tenenbaum, Madame Bovary e tutti gli altri personaggi letterari e cinematografici che nel bene e nel male animano il mio immaginario, facendo parte di me, andiamo avanti con le nostre avventure nella City.