Alti e bassi nel mondo dell’opera lirica newyorchese. Il basso più profondo è stato raggiunto dalla Gotham Opera, che all’inizio della stagione ha dichiarato fallimento. Tra i disoccupati momentanei c'è Luca Veggetti, già della Scala di Milano, coreografo e condirettore artistico della giovane compagnia. È un peccato, perché la Gotham, costituita nel 2000, aveva creato originalissime produzioni tra cui il capolavoro The Tempest Songbook su testi shakespeariani e musiche del secentesco inglese Henry Purcell e della compositrice contemporanea finlandese Kaija Saariaho, messo in scena nel Metropolitan Museum of Art.
Ma passiamo adesso alle novità positive. Una riguarda proprio il Metropolitan Museum, che ha cominciato, a sorpresa, a far circolare tra i visitatori cantanti che eseguono Lieder di Schubert.
Un’altra buona notizia è che due diversi gruppi finanziari sono in competizione per rimettere in piedi la City Opera, venerabile istituto naufragato un paio d’anni fa. Era stato creato negli anni della Grande Depressione dal sindaco Fiorello La Guardia per offrire opere a prezzo accessibile in un nuovo teatro creato espressamente in stile Art Déco su una strada chic a metà dell’isola di Manhattan. Ma ecco che intanto, senza attendere nessun gruppo finanziario, si è infilato in questo teatro un ex complesso corale che, trasformatosi in complesso lirico col nuovo nome di “Master Voices” ha messo sul palcoscenico una seducente interpretazione di quella che è forse la più arguta delle operette di Gilbert & Sullivan, The Pirates of Penzance. È stato un trionfo, non difficile da spiegare dato che le parti principali erano state affidate a Deborah Voigt, star della Metropolitan Opera, e a Phillip Boykin e Douglas Hodge, il primo vincitore del Theatre World Award nel 2012, il secondo celebre attore classico inglese.

Una scena del The Pirates of Penzance
Veniamo adesso alla Metropolitan Opera House vera e propria che ogni sera s’illumina festosamente sul piazzale del Lincoln Center. Anche lì si sono avuti alti e i bassi. Cominciando dai secondi, la novità più deprimente è stata che il versatile e bravissimo direttore dell’orchestra James Levine, 72enne, che nel 2013 era rientrato al suo posto dopo due anni di malattia, ha annunciato di non potere in questa stagione per motivi di salute assumersi altro incarico che una direzione del Tannhäuser, opera indubbiamente difficile, rinunciando alla direzione dell’altrettanto difficile Lulu di Alban Berg, che pure era nelle sue intenzioni. Una ulteriore delusione ha colpito proprio questa seconda opera. La quarantenne, ma sempre bellissima, soprano tedesca Marlis Petersen, che negli ultimi anni si è talmente immedesimata nella parte sexy e tragica di Lulu sui palcoscenici mondiali da diventarne l’interprete per antonomasia, ha dichiarato che, dopo lo strepitoso successo che è stato tributato qualche giorno fa al Metropolitan sia a lei che a una nuova produzione dell’opera curata dall’inglese William Kentridge, abbandonerà per sempre quella parte “per uscirne in un momento buono” invece che in uno di inevitabile declino.
La Lulu (1935) e la Turandot pucciniana (1924) sono state quest’anno le sole, tra le nuove produzioni in cartellone al Metropolitan, ad essere state scritte meno di cent’anni fa. Un ritorno al tradizionalismo? Così pare, dicono alcuni, deciso dal General Manager Peter Gelb per difficoltà economiche e magari per sventare la necessità di vendere la testata del teatro a qualche miliardario in cambio di aiuti, come è avvenuto per l’altro grande complesso musicale del Lincoln Center, la New York Philharmonic, che da quest’anno si chiamerà David Geffen Hall, dal nome di un paperone vanitoso.
Il New Yorker ha accennato addirittura a una eventuale fagocitazione del Metropolitan da parte di chi altro se non Donald Trump? Invece chi scrive vede il sobrio cartellone di questa stagione come la vera buona notizia: un ritorno al buon senso e il riconoscimento che le avventure moderniste degli ultimi anni, esemplificate, l’anno scorso, da una repugnante Traviata in abiti moderni e per di più di bassa classe, non corrispondono né ai criteri dell’arte né ai gusti del pubblico, con conseguenze anche economiche, ovviamente. Il rinsavimento dell’amministrazione è stato testimoniato da tutte le nuove produzioni tra cui, sublimi, proprio il Tannhäuser diretto da James Levine, messo in scena dall’austriaco Otto Schenk e cantato dal sudafricano Johan Botha e l’Otello diretto dal canadese Yannick Nézet-Séguin e messo in scena dal californiano Bartlett Sher con il tenore lettone Aleksandrs (attenzione, proprio così) Antonenko. In tutte queste produzioni le straordinarie risorse fisiche e le aggiornatissime risorse tecnologiche del grande teatro sono state anche messe, cosa relativamente rara, in pieno uso.