È l’8 Settembre, la boutique Tod’s di New York ha scelto questa data, durante la Fashion Week, per celebrare la sua riapertura. Tra lo scintillio di Madison Avenue, in mezzo alle vetrate sericee delle grandi firme di tutto il mondo, la griffe made in Italy ha uno spazio rinnovato dal quale far stagliare imponente il suo apostrofo.
Capisco di aver imboccato la via giusta quando vedo avvicendarsi sui larghi marciapiedi solo uomini in smoking, mentre le vetrate dei grattacieli si fanno più scure e lucenti. Le squadrature intransigenti dei palazzoni, per trovare differenziazione dal piattume di un’architettura che poco spazio lascia alla fantasia, tentano d’assumere una qualunque curvatura possa conferire loro un tocco d'insolito.
Qui ho provato il brivido dell’immigrato. Sono arrivata da poco a New York, i bastimenti non li ho mai visti, ma l’approccio alla dogana mi ha ben ricordato d’essere una forestiera. Muovo i primi passi all’interno di una realtà che troppo altra non mi sembra. Mi ha sconvolto di questa città il suo essere impressionantemente all’altezza dell’idea che ne avevo. Il giornale per il quale sono al secondo incarico costituisce l’unica vera novità.
Non sapevo cosa aspettarmi dall’evento che avrei dovuto seguire, ma una volta lì ho capito che in realtà anche in questo caso non avrei dovuto esserne sorpresa. Una giraffa lunghissima, dalle sopracciglia spesse, spalle al muro, girava da un fianco all’altro in base agli ordini dei fotografi. Dice si chiamino modelle, i rappresentanti di questa rara forma umana di cui abbiamo voluto premiare i geni. Siamo così sicuri ci piacciano tanto le ossa e il volto androgino? Che fine ha fatto Marilyn?
Il comunicato stampa parlava di “lusso discreto” ed “eleganza non ostentata”. Mi giro affannosamente di qua e di là, ne cerco qualche traccia, un pavido cenno, ma niente – Dove sono? Le avevano promesse! – Qui c’è solo troppo oro, non si può provare ad immaginare nessun altro colore.
Alla porta, le hostess in nero tengono stretto un tablet con la lista degli ospiti. Solo dopo apprendo che tra questi c’erano Nicole Kidman, Ewan McGregor, Baz Luhrman, Uma Thurman, Richard Gere, Karolina Kurkova, Olivia Palermo, Emma Ferrer, Caroline Issa, Mira Duma, Princess Deena Abdulaziz. Non pensavo tutta questa gente importante fosse necessaria a impreziosire un marchio che già esiste da più di un secolo e che ha portato il tricolore nel mondo, appartenendo a un brand imperante grazie ai suoi alfieri Fay, Hogan, Roger Vivier.
Mi annuncio ma, a differenza di Nicole e Uma, non sono sulla lista. Vero, in redazione non avevamo ricevuto l'invito né avevamo avuto modo di metterci in contatto con l'ufficio stampa che curava l'evento. E tuttavia, saputo che inaugurava un nuovo negozio italiano sulla scintillante via della moda newyorchese, ci eravamo avventurati a dare uno sguardo, pensando ingenuamente che un giornale di lingua italiana, in quell'occasione non fosse fuori luogo. Ma nella Grande Mela non si scherza con la dura legge delle liste. E il mio nome, né quello di nessuno della redazione, nella lista, non c'è.
Mi chiedono di attendere, finché non si affaccia al cordone d’ingresso una bionda di mezza età dal sorriso congestionato e il capello turgido. Le consegno il biglietto da visita del mio direttore, provo a dire “Sono della VOCE di…”, ma l’inespressività della signora era già risposta sufficiente. Neanche per un secondo si è tolta dalla faccia quel sorriso, neppure mentre blaterava imbarazzata, squadrandomi dalla testa ai piedi, un “No… veramente noi… non abbiamo bisogno”. Non ho capito bene di cosa non avessero bisogno, forse ha pensato fossi un venditore ambulante di quotidiani. Poi, in un gesto di sedicente carineria, mi sfila dalla mano il biglietto, aggiungendo che avrebbero mandato via email ogni comunicazione. Imito l’ingessatura del suo ghigno, giro i tacchi e vado via.
Penso agli italiani di fine Ottocento, immigrati in massa nell’America cui pure un italiano ha dato nome. Se non avessero combattuto durante un intero secolo l’odio xenofobo di altri, altrettanto immigrati, ma ormai da lungo tempo residenti, forse non sarei qui. Mi sarei aspettata maggiore solidarietà da chi, italiano come me, è fiero della cultura che cerca di difendere in giro per il mondo.
Tutto questo sfarzo non è per me, che ho sempre odiato il lusso anche nelle situazioni in cui mi era concesso. Penso alla storia della Tod’s, a quanto poco mi sembri aderire all’ostentazione di un’eleganza a mio avviso più annunciata che seguita, più presunta che onorata.
Penso, ad esempio, che senza l’amore per il pellame del nonno Della Valle, Filippo, cui è intestata la via dove ha sede principale il marchio, a Casette D’Ete, nelle Marche, tutto questo non sarebbe mai esistito. Ribadito fino alla nausea il concetto che le scarpe Tod’s rispettano i canoni del più tradizionale “fatto a mano”, tutte queste paillettes mi sembrano lontanissime da un lavoro che prevede di sporcarsele le mani, impastandole nella colla, lisciandole sul cuoio fino a perdere le impronte digitali, inginocchiati e ricurvi sul proprio lavoro.
Come Il Sole 24 Ore racconta, ancor prima che suo figlio Dorino e i nipoti Andrea e Diego portassero alla quotazione in borsa questa firma, Filippo della Valle si prendeva la briga di recapitare di persona i suoi prodotti al mercato, primo palcoscenico di queste calzature. La buonanima del figlio Dorino, fino ai suoi ultimi giorni, ha continuato a recarsi nelle sue fabbriche per verificare la qualità della lavorazione. Si aggirava tra i suoi operai per essere certo la manodopera fosse ottimale, testando i propri prodotti con la bizzarria d’indossare una scarpa in un modo e una in un altro. Nulla di quella rurale bellezza mi è parso essere finito in questo negozio, che non sarebbe mai esistito senza la dedizione alla fatica di un signore proveniente da un posto, che pare prenda il suo nome dalla presenza di caratteristiche casette e un mulino. Quattro case, un mulino, delle scarpe artigianali, l’arte tramandata di padre in figlio divenuta prima sogno e poi predominio indiscusso di qualità.
Le regole impongono si vada preparati a eventi del genere, almeno provando a rintracciare un accredito. Non è stato incoraggiante questo episodio, ma quello che ha profondamente urtato la mia sensibilità ha poco a che fare con le regole. La bionda signora non mi ha dato risposte che facessero cenno a un qualche protocollo, si è limitata a guardarmi come fossi un testimone di Geova che insiste sull’uscio di casa. Credo questo abbia poco a che fare con la disciplina, che noi italiani sappiamo benissimo come ignorare quando vogliamo, e molto con un certo atteggiamento snob e – mio modesto parere – anche un po’ provinciale. Mi piace riconoscere, quando mi trovo all’estero, l’italianità dalla capacità di plasmare forme da un nulla di partenza, come farebbe un dio. Non mi piace affatto quando la nullità diventa l’obiettivo camuffato da un buon profumo, dimentico dell’umiltà che ci ha reso grandi. Alla Tod’s di New York mi è sembrato ci fosse posto per entrambi.