In Libia ci sono 18 pescatori prigionieri del generale Haftar che hanno una sola colpa. Quella di essere italiani. Il 1° settembre, a bordo dei due motopesca «Antartide» e «Medinea», gli equipaggi di Mazara del Vallo sono stati fermati al largo di Bengasi.

Il motivo è molto semplice. Ad Haftar, comandante della fazione nemica del governo di Tripoli (presieduto da al-Sarraj e supportato, tra le potenze dell’ONU, anche dall’Italia), questi uomini servono per riavere indietro quattro scafisti libici condannati a Catania nel 2015 per traffico di essere umani e per la morte di 49 migranti. Per la Libia, l’accordo può essere solo uno: i pescatori italiani non verranno liberati fino a quando gli scafisti, che gli uomini di Haftar si ostinano a chiamare “calciatori”, rimarranno nelle carceri del nostro Paese. Una sorta di baratto, nel quale la merce di scambio sono gli esseri umani.
Ma i prigionieri non sono tutti uguali. Mentre gli scafisti sono in cella per crimini umanitari, i marinai italiani hanno la sola colpa, secondo i libici, di aver pescato in acque internazionali che loro ritengono essere territoriali. Questo è bastato per metterli sottochiave e iniziare un gioco di ruolo dove la diplomazia conta poco.

Si chiede così al governo di usare le maniere forti, far sentire la propria voce e il proprio peso politico. I cittadini di Mazara del Vallo, dal giorno seguente al rapimento, hanno fatto affidamento in particolar modo sul Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, nativo della loro stessa cittadina siciliana. L’esecutivo, però, ha deciso di rimanere in silenzio, tentando di risolverla con le “buone maniere”. Così, dopo oltre un mese di silenzio, la gente si è stancata. Sui social, alcuni utenti hanno aspramente criticato l’apparente ininfluenza del Guardasigilli. “Il ministro mazarese che fa? Esiste”, scrive Antonino. “Conta come il due di coppe quando la briscola è di spade”, commenta ironicamente Antonio.


C’è però anche chi, alle proteste virtuali, ha fatto seguire i fatti. Da inizio settimana, un gruppo di familiari dei pescatori si trova a Roma, di fronte Palazzo Chigi, chiedendo risposte. Tra i presenti, una donna spicca su tutti. È Rosetta Ingargiola, mamma di Pietro, uno degli uomini rapiti da Haftar. Scossa dal dolore e dalla preoccupazione, per giorni interi è rimasta sotto il Ministero degli Esteri per estorcere dalle autorità qualche notizia sul figlio. Alla fine, è stata ricevuta a Palazzo Chigi dal premier Giuseppe Conte e dal ministro Luigi di Maio, che l’hanno rassicurata sull’interessamento del governo italiano.
Chiaramente, questo non basta. Per una madre, le rassicurazioni non valgono nulla, quando in pericolo c’è la vita del proprio figlio. Rosetta decide quindi di rimanere lì, incatenata di fronte al punto focale della politica italiana. Rimane lì, in attesa di avere notizie certe. E sulle sue spalle, porta l’interesse di una nazione intera, che osserva simbolicamente la costa aspettando che da una barca escano i 18 marinai italiani, catturati in un giorno di tranquilla pesca dei gamberi e trattati come merce di scambio.