La Sicilia taglia in due il Mediterraneo. Questo è il destino storico dell’isola, crocevia di strade di mare, di incroci di viaggi, di approdi stabili o provvisori. Forse è difficile, prima di tutto per i Siciliani stessi, immaginarsi come terra di semplici immigrati, come immobile luogo di accoglienza. Più naturale vedersi come terra di stranieri, in cui nuovi approdi aggiungono nuovi esotismi ai già esistenti. Qui, in Sicilia, il viaggio si interseca con altri viaggi, senza mai concludersi in un definitivo arrivo.
Lo straniero, in Sicilia, proverbialmente approda, sbarca sempre dal mare. La sua provenienza, per la collocazione geografica, è sempre marina. Il contadino di Sciascia che vede arrivare il nugolo di aerei americani che preparano l’invasione, li vede, gli aerei, sull’orizzonte del mare. Vengono dal mare come tutti i conquistatori di ogni epoca.
Cos’è, allora, lo straniero, il migrante, nel nostro immaginario, quali panni veste, quale ruolo ricopre, da dove viene? Sono domande il cui interesse è risvegliato dal cambiamento profondo maturato oggi nei rapporti della Sicilia con il Mar Mediterraneo.
È stato Fëdor Dostoevskij a scrivere che la compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera. L’umanità e la sua essenza morale, come com-passione; capacità di avvertire la sofferenza dell’altro; ancor più se causata da altri uomini e, soprattutto, se indirizzata verso delle minoranze. Libertà, eguaglianza e democrazia, sono le ragioni fondative del progetto europeo e dell’idea stessa di Europa. La tutela dei diritti e, in particolare, della dignità umana; la salvaguardia delle minoranze, della democrazia e del pluralismo sono state sancite quale obiettivo della Comunità prima e dell’Unione europea poi.
Il ripudio dell’indifferenza è assurto quindi, con il Trattato di Lisbona, a elemento qualificante non solo i rapporti interni all’Unione, ma anche le sue relazioni esterne. Significativamente, l’articolo 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea affianca alla solidarietà tra gli Stati membri l’equità rispetto ai cittadini dei paesi terzi, come principi essenziali ai quali la politica comune, in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, deve ispirarsi.
Questo non ha impedito, tuttavia, il consumarsi di troppe morti tra quanti, nel tentativo di raggiungere le nostre coste, hanno voluto credere a quelle promesse di solidarietà. L’estraneità e l’indifferenza sono stati i sentimenti prevalenti di fronte all’ecatombe di corpi che il Mediterraneo ci restituisce e questo non ha impedito, e nemmeno contrastato, politiche pubbliche, non solo nazionali, basate su una visione meramente contabile della questione migratoria, la cui complessità è stata ridotta a un’equazione tra quote di ingresso, costi di sussistenza e numero di espulsioni.
C’è una degradazione prodotta, nell’uomo, dall’indifferenza, resa possibile dall’inerzia e dal silenzio, nonché da un sentimento di estraneità di ciascuno verso l’altro. In altre parole, aver accettato (come tutti abbiamo accettato), che appena al di là dei confini nazionali, nell’ultimo quarto di secolo, si consumasse una strage ininterrotta di migranti e profughi, affogati nel Mediterraneo, costituisce un efficace metro di valutazione della tenuta dei principi ai quali diciamo di ispirarci. Dà la misura, cioè, di quale sia il valore reale che attribuiamo alla vita di quegli esseri umani. Un valore che, certamente, non è lo stesso che assegniamo alla vita dei membri della nostra comunità e per sopportare il perpetuarsi di quell’ecatombe nel canale di Sicilia, è stato forse necessario accettare di considerare quei morti come sotto-uomini, non-persone, colpevoli di non appartenere alla nostra “razza” o di essere nate dalla parte sbagliata del mondo.

La “globalizzazione dell’indifferenza”, denunciata da papa Francesco nel corso del suo primo viaggio apostolico, nel lontano luglio del 2013, nell’isola di Lampedusa, è allora il simbolo di come, alle vittime di queste stragi, che continuano ancora, sia stata inflitta l’ulteriore ingiuria della denegata giustizia: dell’estraneità mostrata da Stato, comunità internazionale e cittadini di fronte a tali crimini.
È proprio l’incommensurabilità di questi crimini rispetto alle pene conosciute dai nostri codici a manifestare, con sempre maggiore urgenza, il bisogno di reagire all’indifferenza. È dall’idea stessa di giustizia che si dovrebbe ripartire per reagire all’insensibilità che troppe volte ha circondato questi crimini contro l’umanità e impedirne di nuovi, soprattutto in Europa, che ha quali obiettivi e princìpi fondativi, la solidarietà, l’equità, la tutela dei diritti e della dignità. Dignità che, significativamente, apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e non è un caso che sia ancora la dignità a ricorrere spesso nella giurisprudenza europea (oltre che interna), proprio a proposito dei diritti dei migranti. Una politica lungimirante e all’altezza del proprio compito non può che fondarsi, allora, sul riconoscimento della dignità dell’altro, quale miglior antidoto alla xenofobia e presupposto per una società matura. Questo è l’obiettivo che deve porsi l’Europa – nel mito greco migrante anch’essa – nel ripensare se stessa a partire dalle ragioni per le quali è nata.
Il fatto che si evochi, in occasione dei salvataggi nel Mediterraneo, la cosiddetta legge del mare sottolinea la crucialità e l’ineludibilità di quel rapporto perché lo colloca geograficamente laddove lo spazio sembra raggiungere la sua assolutezza: il mare, appunto. È questo che può spiegare i connotati perenni e imprescindibili di quell’obbligo-diritto-dovere al soccorso e al salvataggio come valore incondizionato. E, infatti, già il porre condizioni e, di conseguenza, deroghe e limiti, già il circoscrivere e sottoporre a vincoli quello che è obbligo assoluto significa compromettere la forza di quella “legge” del mare e il suo significato universale. Ecco, non c’è dubbio che questo si sia iniziato a fare. Ciò significa, forse, che siamo diventati razzisti? O, almeno, un po’ razzisti? No: significa, piuttosto, che una concezione dell’umanità fondata sul principio dell’uguaglianza – “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” – è certamente entrata in crisi. Ed è entrato in crisi quello spirito di fratellanza evocato dalla stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che rappresenta il fondamento stesso del legame umano come senso di reciproca responsabilità.

Quanto accade nel canale di Sicilia costituisce ormai un bilancio di morte cui rischiamo di abituarci perdendo ogni capacità di commozione, relegando al di fuori delle nostre frontiere e soprattutto dei nostri sguardi quei “magazzini di anime” – come il Governo greco definisce il confine greco-macedone – disposte a pagare a caro prezzo il “biglietto per la morte o per la vita” agli scafisti. Questi, nella nostra rappresentazione di comodo, sono assurti a responsabili unici dei naufragi e delle morti di quanti a loro si affidano per raggiungere l’Europa.
Occorre piuttosto spingere lo sguardo oltre, di non fermarsi alla soluzione più comoda e più deresponsabilizzante. Ovvero quella della criminalizzazione di chi materialmente rende possibile (quando lo rende possibile) l’ingresso illegale. Si tratta di comprendere, invece, quali effetti, in termini di vite umane, producano le politiche di chiusura e la conseguente restrizione dei canali di accesso regolare negli Stati europei (nel nostro in particolare). E si tratta di prendere atto, con onestà intellettuale, della totale ineffettività di tali politiche, che relegano in una sorta di zona grigia (ampio bacino per lavoro sommerso e sfruttamento) coloro ai quali non viene concessa protezione (e sono ormai circa il 60 per cento sulla totalità dei richiedenti).
Rispolveriamo un attimo la nostra memoria e pensiamo al bimbo di otto anni, di origine ivoriana, trovato, nel maggio 2015, raggomitolato in posizione fetale all’interno di un trolley spinto da una ragazza marocchina a Ceuta, “assunta” dal padre per fargli superare la frontiera, oltre la quale sperava avrebbe potuto avere quelle chance di vita che nel suo paese gli erano negate. I due adulti sono stati processati per traffico di esseri umani, il bambino ha ovviamente rischiato la morte. Il tutto per un diniego di un’istanza di ricongiungimento familiare. Tutti certamente ricordano ancora Aylan, il bambino curdo di tre anni, affogato nel tentativo di raggiungere le coste greche e ritrovato sulla spiaggia di Budrum, in Turchia. Questa tragedia ha avuto, sia pure per breve tempo e con efficacia non certo risolutiva, la capacità di far risuonare una qualche sopita sensibilità nei confronti di un dramma guardato con distacco. Un vero e proprio naufragio con spettatore. Uno spettatore imperturbabile. Quella foto ha dato un volto e un corpo (oltretutto, il corpo di un bambino) all’astratta idea di morte con cui ci rappresentiamo i ricorrenti naufragi davanti alle nostre coste. Ma è questa l’equità verso i paesi terzi cui, secondo i Trattati, dovrebbe ispirarsi la politica comune europea in materia di immigrazione e asilo?
Il principio di equità verso i cittadini degli Stati terzi impone infatti di garantire, a chi ne abbia diritto, la protezione internazionale con modalità tali da non metterne a rischio l’incolumità; proteggendoli dunque sin dal momento della partenza, per evitare che il solo tentativo di raggiungere l’Europa divenga per loro occasione di morte. Ciononostante, l’Unione europea e i singoli Governi non riescono a mutare realmente l’approccio alla questione migratoria, consolidando una posizione d’inerzia che non può non definirsi colpevole e abbiamo finito quasi con l’abituarci a tante morti di persone di cui non abbiamo mai conosciuto né cercato il nome, l’identità, il percorso, considerandole come unità anonime di una massa unica, destinata alla morte per fatale necessità. La fila dei cadaveri infagottati in qualche modo, addirittura in sacchi della spazzatura, sulla banchina di Lampedusa, è una scena che abbiamo visto troppe volte. E che ha finito con il restituirci l’idea che a morire non fossero persone ma numeri. Vale sempre l’abusata citazione attribuita a Stalin: una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica.
Vivendo, la Sicilia e il Mediterraneo, tempi di grandi cambiamenti etnici e geopolitici, il volto dell’Altro è ancora enigmatico e difficile da descrivere nei suoi precisi caratteri reali ma è assolutamente certo che per gli “stranieri” in fuga, i migranti che dal mare vengono in Sicilia, quest’isola è l’approdo per eccellenza, come per lunghi secoli è stato, una prima meta di altre ulteriori. Dunque è proprio qui in Sicilia che si può e si deve interrompere un processo di “massificazione dell’orrore” ormai diventato consuetudine, questo annientamento dell’identità, questa spersonificazione e negazione dell’umanità dell’altro; contrastare con quella “diga psichica” rappresentata dalla com-passione quanto avviene oggi a proposito dei migranti, dei quali accettiamo la morte, tragica nel suo ripetersi uguale, prevedibile, e ciononostante troppo spesso non impedita. La Sicilia non è più il mito d’arrivo del Gran Tour del gentiluomo europeo, intellettuale o artista; il nuovo legame tra la Sicilia e il Mediterraneo fa dell’isola, per miriadi di migranti, il primo avamposto del sogno occidentale: un nuovo modo e insieme antico che riconferma in forme attuali e tragiche il ruolo antichissimo di crocevia etnico, di luogo dell’incontro e del rimescolarsi di culture, ancora oggi, come al tempo degli esuli troiani, terra di accoglienza e rifugio.