La Turchia o, per essere più precisi, i turchi stanno pagando a caro prezzo lo stato confusionale in cui è caduto, da qualche anno a questa parte, il loro governo. Da quando è apparso chiaro che le rivoluzioni arabe erano fallite, i dirigenti di Ankara sono passati da un errore all’altro, col risultato di trovarsi oggi con pezzi di guerra mediorientale importati sul loro territorio. La “lotta contro il terrorismo” sbandierata da Recep Erdogan non ha avuto altro risultato che far aumentare il terrorismo (come mostra la serie storica degli attentati perpetrati in Turchia: 2007, 2 attentati e 10 vittime; 2008, 2 attentati e 22 vittime; 2009, 1 attentato e 10 vittime; 2010, 2 attentati e 9 vittime; 2011, 9 attentati e 24 vittime; 2012, 78 attentati e 104 vittime; 2013 e 2014, i due anni di tregua con il PKK, rispettivamente 2 attentati e 52 vittime, 1 attentato e 1 vittima; 2015, 6 attentati e 141 vittime; 2016 fino al 13 marzo, 4 attentati e 86 vittime).
Le “primavere arabe” avevano offerto alla Turchia la speranza di poter esportare il proprio modello musulmano democratico e economicamente dinamico. Il colpo di Stato in Egitto – nel luglio 2013 – ha seppellito quella prospettiva. L’Egitto, il paese arabo più popoloso, dalla storia e dalla tradizione politica più ricca, rappresentava agli occhi del governo di Ankara il “gioiello della corona” del sogno di restaurare la rete politica mediorientale del vecchio Impero ottomano. Il passaggio del Cairo dalla sfera di influenza turca a quella saudita ha rappresentato un colpo durissimo, forse letale, per la strategia politica pazientemente tessuta da Erdogan e dal suo allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu.
La fine della primavera siriana non solo avrebbe fatto svanire un altro pezzo di quel sogno, ma lo avrebbe trasformato in incubo. Una Siria controllata da Bashar al-Assad, infatti, concentra tre minacce per la Turchia: 1) in quanto estremità occidentale e mediterranea dell’arco sciita, ormai senza soluzione di continuità dopo la “conquista” iraniana dell’Irak; 2) in quanto base navale (Tartus) e aeronautica (Lattakia) dell’arcirivale russo; 3) in quanto base delle operazioni dei curdi del PKK, e possibile nucleo di un futuro Kurdistan indipendente proprio alle sue frontiere meridionali. Queste tre ragioni aiutano a capire l’accanimento con cui i dirigenti di Ankara hanno sostenuto i nemici di Assad.
Fra questi ultimi, i miliziani dell’ISIS sono apparsi, almeno dal 2014, i più determinati a restringere Assad nella sua roccaforte alawita, e a combattere i curdi siriani. Erdogan, però, appoggiando l’ISIS, ha commesso lo stesso fatale errore degli Stati Uniti con i mujaheddin afghani, del Pakistan con i taliban o dell’Algeria con i suoi terroristi. Quei movimenti rispondono solo in parte ad una logica politica, e la loro logica millenarista – se di logica si può parlare – è totalmente fuori controllo. Mordere la mano di chi li nutre è il loro modo di affermare la loro indipendenza, tanto più se chi li nutre continuerà a nutrirli anche dopo essere stato morso.
Un altro fatale errore è stato di rompere la tregua con i curdi del PKK e i loro alleati siriani dell’YDP. Oggi appare chiaro che quella rottura non aveva solo motivazioni elettorali, ma era di carattere più strategico: con la conquista di Kobane, i curdi siriani hanno stabilito una striscia di controllo alla frontiera con la Turchia che è la concretizzazione di uno dei peggiori incubi di Ankara.
Ancora un errore è stato di considerare che gli Stati Uniti si sarebbero comunque schierati dalla parte della Turchia. Ma, in Medio Oriente, gli Stati Uniti stanno rivedendo le loro priorità. E fra queste non c’è, di sicuro, il confronto con i russi per far piacere ad Erdogan.
La strategia per cui il professor Davutoglu venne cooptato nel governo islamista democratico di Erdogan era riassunta dallo slogan “zero problemi con i vicini”. Tredici anni dopo, la Turchia ha grossissimi problemi non solo con tutti i suoi vicini, ma anche con gli amici più lontani.
Ad eccezione dell’Europa. Dopo aver fatto i bulli con i turchi per almeno gli ultimi dieci anni, adesso gli europei si trovano a dover subire le prepotenze del bullo turco. Il quale, non solo si prende la rivincita delle inutili vessazioni del passato, ma si appoggia con tutto il suo peso sull’unica sponda rimastagli. In questo caso, l’ulteriore errore potrebbe essere quello di considerare l’Europa ancora una sponda.
Nel passato, la forza di attrazione del processo europeo ha piegato regimi ben più ottusi di quello turco: dalla Grecia alla Spagna e al Portogallo fino ai paesi dell’Europa centrale e orientale, passando per la rottura della “democrazia bloccata” italiana agli inizi degli anni Novanta. Nel passato più recente, la sua forza di attrazione aveva costretto la Turchia a rinunciare ad alcuni dei retaggi kemalisti autoritari, quali il diritto di veto dei militari sulla vita democratica.
Ma la possibilità di vincolare la Turchia all’Europa e alle sue regole ha preso fine con la decisione francese di bloccarne indefinitamente il processo di adesione. Come profeticamente scriveva Samuel Huntington nel 1996, «a un certo punto, la Turchia potrebbe averne abbastanza del ruolo frustrante e umiliante del questuante che piatisce un posto in seno all’Occidente, e potrebbe riprendere il suo ruolo storico molto più impressionante ed eminente di interlocutore islamico principale e antagonista dell’Occidente».
Oggi, una parte dell’Europa vorrebbe di nuovo una Turchia umile e questuante. Ma la forza di attrazione non c’è più: se n’è andata con l’indecorosa lite sui rifugiati e col penoso compromesso con la Gran Bretagna.
Circondata da nemici, abbandonata dagli amici, e senza appoggi sicuri in Europa, alla Turchia resta la “lotta la terrorismo” di Erdogan. Coi risultati che sappiamo.