Facciamo un gioco. Ora riporterò di seguito la dichiarazione di un politico, ministro di uno stato da sempre considerato nel novero di quelli occidentali. Dopo averla letta e compresa, provate a immaginare nella gerarchia delle notizie dove dovrebbe essere in un quotidiano, in un telegiornale, in un sito internet di notizie. “Se dovessi scegliere tra l’Iran e lo Stato Islamico in Siria, sceglierei l’ISIS”. Continuando nel gioco (i più smaliziati e cultori della geopolitica hanno già capito chi è il signore in questione o almeno lo stato), aggiungo che la frase è stata detta all’interno di una conferenza pubblica e non è una chiacchiera da bar, un rumor da corridoio o un cablogramma segreto rubato da WikiLeaks.
Se l’avesse detto un ministro francese, italiano o inglese, forse ci sarebbe stata una prima pagina. Immaginate uno dei notabili del governo Renzi che dice una cosa del genere. Ci sarebbero richieste di dimissioni dalla maggioranza e dall’opposizione, l’Unione europea chiederebbe spiegazioni, gli alleati della NATO lo sconfesserebbero immediatamente: d’altra parte non si può fare amicizia con il nostro peggior nemico che angoscia e spaventa centinaia di migliaia di persone in giro per il mondo. Magari anche il portavoce della Casa Bianca si scomoderebbe per dire che un ministro di un Paese alleato ha preso quanto meno un abbaglio.
Ora che avete pensato alle possibili prime pagine e ai titoli urlati vi consiglio di mettere su internet il nome di Moshe Ya’alon, ministro della Difesa israeliano. Troverete alcuni articoli di giornalisti israeliani, The Washington Post (versione online, non so se anche cartacea) e se questa ricerca avviene in Italia qualche sito “politicamente scorretto”. Nient’altro. Il ministro Ya’alon ha visto bene di fare questa famosa scelta di campo tra ISIS e Iran il 19 gennaio scorso in un suo intervento durante una conferenza a Tel Aviv organizzata dall’Istituto di Studi per la Sicurezza Nazionale (INSS). E non si è fermato solamente al tifare ISIS contro gli iraniani: ha anche detto che gli interessi di Israele si allineano con quelli delle potenze regionali sunnite (leggasi stati del Golfo che ovviamente sono i maggiori finanziatori di ISIS e dei gruppi legati ad al-Qaeda).
Come nota correttamente The Washington Post, queste non sono solo parole, ma sono prassi nel governo israeliano: le forze armate israeliane non hanno mai attaccato lo Stato Islamico, ma hanno bombardato più di una volta le milizie sciite libanesi di Hezbollah in Siria e ça va sans dire le truppe fedeli a Damasco e a Bashar al-Assad. Nessun leader occidentale si è sentito in dovere di rispondere alle dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano e quasi nessun media del main stream ha dato spazio a questa dichiarazione pericolosissima. D’altra parte se si pensa al presidente turco Recep Tayyip Erdogan che può zittire le opposizioni incarcerandone i leader, arrestare giornalisti, sospendere la libertà di stampa e i social media, bombardare indiscriminatamente postazioni e villaggi curdi e che allo stesso tempo è leader di una nazione che fa parte della NATO e che è grande amica dell’Occidente, non c’è da stupirsi di nulla. Chi scrive invece continua a rimanere colpito dal doppiopesismo americano ed europeo, dal silenzio davanti a governi alleati che tifano ISIS o che addirittura lo supportano (chi compra il petrolio del califfo al-Baghdadi? Chi gli vende le armi? Chi gli fa la campagna promozionale sui social media a livello mondiale? Chi recluta gli uomini?) e dalle campagne mediatiche contro chi non è un alleato. Chi scrive, dopo un anno di vita in Vicino Oriente, continua a pensare che quanto raccontato in Occidente sia molte volte una versione manichea per dividere il mondo tra bene assoluto e male assoluto, dimenticando che nel mezzo ci sono donne, uomini e bambini, culture millenarie e divisioni imposte da Paesi vicini e dall’Occidente stesso. Chi scrive è convinto che il clima che si respira sia pericolosissimo, soprattutto perché da noi, non si fa più analisi e si continua a preparare il terreno per una guerra on the ground che può drammaticamente diventare quel famoso scontro di civiltà tanto teorizzato ben prima dell’11 settembre 2001.
Resta da capire a chi faccia comodo tutto questo e cosa ci sia dietro. Bisognerebbe analizzare il ruolo della Turchia e di Erdogan, dell’Iran e dei Sauditi, della lotta tra al-Qaeda e Isis, della questione israelo-palestinese usata come un mantra per destabilizzare l’area e ricordarsi che mentre tutto il mondo parla dei bombardamenti in Siria come di una grande vittoria contro il terrorismo, dall’altra parte c’è la popolazione siriana ormai straziata da tonnellate di bombe di ogni ordine e colore senza neanche la possibilità di scappare.
Chi scrive vi prenderà per mano in questo viaggio tra Cose dell’altro mondo, cercando di rendere semplice quello che semplice non è. Dietro a tutto questo, chiaramente, c’è un interesse economico, energetico e poi strategico. Tanto per fare un esempio, come ha raccontato perfettamente Alberto Negri sulle colonne de Il Sole 24 Ore: “Il matrimonio finora indissolubile tra Occidente, Islam e petrodollari comincia settant’anni fa. E continua ancora nonostante i petrodollari abbiano finanziato il terrorismo […] In Arabia Saudita tutto nasce all’insegna del Corano e soprattutto del dollaro. A partire dall’estrazione del petrolio avviata dalla Standard Oil nel 1938 e dall’Aramco, la società di Stato, fondata da tre compagnie Usa. Il bollino di garanzia sul Regno verrà incollato qualche anno dopo da Roosevelt. Pur di compiacere i dettami islamici del suo ospite saudita, il monarca Abdulaziz Ibn Saud, Franklin Delano Roosevelt 70 anni fa si nascose a fumare l’amato Avana nell’ascensore dell’incrociatore Quincey ormeggiato nel canale di Suez. Si era informato bene: qualche tempo prima il Re non aveva sopportato né il sigaro di Churchill né le sue bevute di whiskey. Era il 14 febbraio 1945, dieci giorni dopo Yalta, Stati Uniti e Arabia Saudita stavano per stringere un patto fondamentale negli equilibri del Medio Oriente: petrolio e basi aeree a Dahran in cambio della protezione americana del Regno”.
Il Regno che per inciso, allora come oggi, è la culla di quel Wahabismo islamico che è la base ideologica dei gruppi estremisti di tagliatori di teste e massacratori di massa, a Parigi come a Beirut, a Bruxelles come in Burkina Faso. Arriveremo a un devastante nuovo conflitto per difendere questa alleanza indissolubile o l’Occidente riuscirà a smarcarsi? Fermeremo il conflitto in Siria o lo useremo come scusa per un conflitto più ampio?