Le elezioni di questa domenica in Turchia hanno dimostrato che Recep Tayyip Erdoğan ha avuto ragione, e che tutti quelli che – noi compresi – si aspettavano una sua disfatta elettorale hanno avuto torto.
Nel pronosticare una sua possibile débâcle, molti osservatori avevano però dimenticato che, alle elezioni dello scorso giugno, l’AKP, il partito di Erdoğan, era stato “sconfitto” con il 40,9% dei suffragi, un risultato che, con altri sistemi elettorali, gli avrebbe potuto garantire la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Quel 40% costituisce, si potrebbe dire, l’apporto di capitale elettorale proprio dell’AKP – accumulato durante il primo decennio di potere, quando la Turchia è stata il paese economicamente più dinamico dell’area Europa-Mediterraneo. A quello “zoccolo duro” si sono aggiunti ieri una decina di punti percentuali raccolti giocando la carta nazionalista e securitaria. Non solo il presidente e il governo, ma anche i commentatori ostili ad Erdoğan, e le stesse opposizioni, avevano paventato uno stato di crisi imminente e catastrofica che ha, evidentemente, ricompattato una parte dell’elettorato intorno a chi, negli ultimi anni, ha offerto alla popolazione turca prosperità e sicurezza.
La campagna di radicalizzazione anticurda del governo ha contribuito in maniera decisiva a polarizzare il voto, drenando molti suffragi alla destra nazionalista (che perde la metà dei suoi seggi), ma anche, evidentemente, allo stesso partito curdo HDP, che esce ridimensionato dalle urne. Non solo: ma se è vero che i curdi rappresentano tra il 20 e il 25% della popolazione turca, vuol dire che la maggioranza di essi non ha votato per l’HDP. D’altronde, nei primi anni dei successi elettorali di Erdoğan, i curdi votavano in maggioranza per l’AKP, nella speranza di chiudere per sempre la “questione curda” e di partecipare anch’essi al generale arricchimento della società.
Un altro aspetto interessante e poco sottolineato di queste elezioni è l’apparente ininfluenza elettorale della rete di Fethullah Gülen, il predicatore religioso che aveva non poco contribuito alle prime fortune politiche di Erdoğan, prima di rompere con lui nel 2013. Secondo le versioni correnti, Gülen sarebbe alla testa di una specie di Opus Dei musulmana, una vasta rete di servizi sociali (prevalentemente educativi), di istituzioni economiche (tra cui il sindacato dei piccoli e medi imprenditori TUSKON, e la sua banca, la Bank Asya) e di media (tra cui il quotidiano più diffuso del paese, Zaman, e le reti televisive Samanyolu TV, Mehtap TV, Bugün TV e Kanaltürk, tutte oggetto di recenti misure repressive), con connessioni tra le forze di polizia e negli ambienti giudiziari. Sempre secondo quelle fonti, il movimento di Gülen avrebbe “milioni” di seguaci in Turchia (e non solo). I risultati delle elezioni di domenica lasciano aperte solo due possibilità: o il movimento di Gülen è una tigre di carta, oppure la rottura con Erdoğan è meno profonda di quanto si voglia (far) credere.
Erdoğan ha vinto la battaglia elettorale, indubbiamente, ma non ha ancora vinto la sua guerra politica. E non solo perché la maggioranza parlamentare, benché assoluta, non gli consente tuttavia di modificare la Costituzione in senso presidenzialista, come avrebbe voluto quando ha abbandonato il posto di primo ministro per diventare presidente. Ma anche perché, della lotta politica, le elezioni rappresentano solo un capitolo, e certo non il più importante.
Il problema più spinoso di Erdoğan, e della Turchia, riguarda la collocazione internazionale del paese. In questo senso, la strategia iniziale dell’AKP – la “profondità strategica” invocata dall’attuale primo ministro Ahmet Davutoğlu, e basata sul principio di “zero problemi con i vicini” – è palesemente fallita. Non solo, come ha detto qualcuno, ha finito per provocare “molti problemi con tutti i vicini”, ma ha anche drasticamente peggiorato le relazioni con gli Stati Uniti, primo partner politico della Turchia, con la Russia, con l’Iran e, come si sa, con Israele, suo storico alleato regionale. L’accordo di luglio sul nucleare iraniano vede la Turchia nel campo dei perdenti, con un rafforzamento del principale rivale geopolitico nell’area, l’Iran. La decisione del presidente Obama di sostenere la cooperazione militare con i curdi siriani mandando 50 “consiglieri” nell’area dei combattimenti contro l’ISIS vale anche come implicita sconfessione alla guerra di Erdoğan contro i curdi e alla sua proposta di creare una zona cuscinetto “di sicurezza” (cioè: non controllata dai curdi) alla frontiera con la Siria. L’intervento militare russo in Siria, poi, con un paio di violazioni della frontiera turca, ha aggiunto al danno la beffa. Mai, dal dopoguerra, il valore geopolitico della Turchia è stato così deprezzato.
All’aperta ostilità di Mosca, al compiacimento di Teheran, e all’irritazione di Washington hanno fatto da contraltare le recenti aperture di credito da parte europea, e tedesca in particolare. In questo frangente di crisi dei rifugiati, l’Europa pare essere la sola in misura di rivalutare il capitale geopolitico turco, sostenendone il ruolo di filtro tra le zone di guerra e l’Europa. Ma non è escluso che ci sia anche qualcosa di più. La freddezza di Washington, e la solitudine di Ankara, aprono dei vuoti che qualcuno, necessariamente, cercherà di colmare. La visita di Angela Merkel ad Istanbul, la settimana scorsa, è valsa un endorsement. Ora sta ad Erdoğan, vittorioso in casa, di farlo fruttare.