13 giugno 1982, l’Italia vince i mondiali di calcio in Spagna, commuovendo il mondo e gli Italiani da Milano a Palermo, da Sandro Pertini a Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sì, credo proprio che anche il Generale abbia festeggiato la vittoria degli azzurri, abbracciando i suoi cari, gli amici e forse anche, per una sera soltanto, chi non conosceva.
Appena 3 mesi dopo quel Generale cadde a Palermo insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo, uccisi per mani mafiose e sconosciute. Anche quando i nomi si seppero e i mandanti pure, restarono in ombra e senza risposta gli altri terribili dubbi, il delitto di Stato e le responsabilità politiche. Un anno dopo quell’omicidio presi il diploma e lo misi dentro le valigie, come in tanti, in cerca di futuro, destinazione Milano. Palermo puzzava di morte e di prediche inutili ma io, per fortuna, ero ancora troppo giovane e libero per piangere la mia terra.
Palermo e Milano: due opposti, due opposte illusioni, entrambe italiane. Un viaggio allora solo in treno, in attesa del low cost. Andata, ritorno, e ancora andata e poi ritorno al punto da non sapere più distinguere il ritorno dall’andata. Un viaggio lunghissimo, il vero viaggio della mia vita, scoprendo e ascoltando me stesso accanto al finestrino e dall’altra parte, là fuori, i profumi e i diversi accenti dell’Italia intera, dallo Stretto alla Padania.
E il futuro è durato 23 anni. Milano mi ha dato tanto: formazione, sicurezza, esperienza, amicizie e affetti sinceri. Poi ha cominciato a stringersi e stringermi, sempre più chiusa fra la cerchia dei navigli, il business, il marketing, la moda tutta uguale, rigorosamente nera. E anche la corruzione. Milano, con la sua straordinaria storia di libertà e intraprendenza diventava più simile a Palermo che all’Europa, incantata e affascinata prima da un partito e poi da una coalizione sbagliata e gravemente malata, dalla politica clientelare, dalle tangenti e poi ancora da una crisi che oggi è tutta italiana. E inevitabilmente, negli anni, ho sentito il richiamo delle sirene. Mi mancava il mare, quello vero e profondo, gli orizzonti e le domande che solo un’isola senza ponti sa darti, e poi ancora una volta la libertà. Sì, così come mi ero sentito libero di partire, con il consenso di tutti, adesso volevo sentirmi libero di tornare, con moglie e figlio, fra lo stupore un po’ invidioso e un po’ ammirato delle opposte sponde: “auguri, fai bene a lasciare questa città invivibile” – dicevano a Milano – “ma sei un pazzo, che ci vieni a fare qui, non pensi a tuo figlio?” – replicavano a Palermo. Sono passati ormai quasi 30 anni dal primo viaggio e sono di nuovo qui, e dico a casa perché ho capito che il primo passo per diventare cittadini del mondo è riconoscere e amare la propria casa. E la mia casa è la Sicilia, che amo follemente con la sua bellezza struggente e sensuale. Una casa dove il mare, il sale e la lava sono più abbondanti della terra, e quindi una casa che poteva e doveva essere diversa necessariamente da Milano e dall’Europa.
Ma è una casa occupata, peggio che militarmente, da uomini intrisi d’asfalto, cemento e appalti, che al mare lasciano solo scarichi e benzina. Ho capito adesso che la mia scelta di andare via a 18 anni non è stata affatto libera. La voglia di crescere, la curiosità, il rifiuto del posto pubblico e della raccomandazione mi hanno “costretto” ad andar via. Non sono (ancora) pentito di essere tornato ma sono molto preoccupato e spaventato. La bellezza inimitabile di questa terra è solo un attimo rubato ad ogni giorno e il resto che ci circonda è assai peggio della cerchia dei navigli e rischia di trasformarsi in un divieto d’accesso assoluto ed eterno. E’ vietato sperare, vietato cambiare, vietato crescere professionalmente, vietato credere nella libera concorrenza e nella meritocrazia, vietato difendersi, vietato liberarsi da questa terribile piaga che è la Regione Sicilia, una corte di amici più che un parlamento, sostenuta da alleanze di nemici, un padrone assoluto in uno stato già troppo piccolo (in tutti i sensi) che è l’Italia. Questa Italia, lo sappiamo, si è ammalata rinnegando se stessa e le sue formidabili capacità, e Milano è proprio la testimonianza più concreta di quanto patrimonio abbia sprecato questo paese: culturale, economico, competitivo, innovativo.
Palermo è un’occasione sprecata in più, di questo paese. Perché Palermo è un patrimonio di tutta l’Italia. E la Sicilia occupata dalla Regione, dalla politica e dalla mafia dovrebbe essere una preoccupazione prioritaria del nostro cosiddetto sistema paese. La Sicilia che seguì al maxiprocesso e alle stragi di Falcone e Borsellino provò a reagire, sentendo anche un qual certo sostegno nazionale. E’ emblematico il 1992, a Milano scorrono ancora tanti soldi e tante offerte di lavoro e improvvisamente scoppia tangentopoli mentre a Palermo sprofonda il buio più profondo con l’omicidio di Falcone prima e di Borsellino subito dopo. La città di Palermo pianse davvero. E profondamente offese, unite dal dolore e da troppe morti, reagirono Milano e Palermo, contro tangentopoli, la mafia, la viltà. Forse è stata l’unica volta che per davvero si poteva arrivare fino in fondo, uniti. Ma i tempi, le strategie e i fini purtroppo non combaciarono.
Siamo arrivati ad oggi e sappiamo com’è andata. Da una parte, lassù, si fronteggia la crisi con grande fatica contando sulle proprie forze, una sorta di nuova resistenza. Si lavora, con l’afa o con la nebbia, inseguendo il Pil, come doguendo lo stipendio, sperando che questo mese arrivi ancora. Resistono, i milanesi onesti, aspettando che passi, ben consci della “casta” che rema contro e della distanza della politica, con la Regione Lombardia sempre più simile al peggio del sud, con tanti inquisiti e brutti personaggi che governano, decidono, sfasciano. C’è un sindaco nuovo a Milano ma la crisi è grande e i risultati ancora non si vedono. Milano resiste per fortuna anche alle tentazioni della camicia verde forse perché, oltre al tristissimo spettacolo di Bossi, Maroni e Calderoli, a Milano i giornali si leggono e i volti di Cuffaro e Lombardo sono noti, e sanno a Milano che la Sicilia che rende omaggio a quei volti è, in effetti, una regione a statuto autonomo, ovvero un esempio italiano di federalismo.
E quaggiù? possiamo fare resistenza anche noi? E come? Con quali mezzi? Le Primarie del PD si sono rivelate un tragico boomerang per questo partito che continua in questa città a confondere, truccare e litigare, confermandola una terra di nessuno o, meglio, dei pochi eletti. E’ incredibile che la sinistra e le sue possibili incarnazioni non riescano ad esprimere un’alternativa possibile, e dunque a vincere, in una città così massacrata e terribilmente amministrata dal centro destra per ben dieci anni. Neanche quando l’avversario fa un clamoroso autotogol e quindi vincere è più facile. E così rispunta Leoluca Orlando, l’ex Sindaco di Palermo protagonista dell’ultima primavera siciliana, poi annichilita dagli ultimi 10 anni di (non) governo di Diego Cammarata.
Ma un sindaco non basta, a Palermo occorre ormai una rivoluzione, che sappia convincere e coinvolgere i migliori cittadini. Una guerra senza limiti. Politica ma anche culturale, contro gran parte dei siciliani e di un pezzo dell’Italia. Saprà immaginarla e vincerla Leoluca Orlando questa guerra? L’alternativa è continuare a cercare disperatamente il futuro, ma sul treno per Milano ormai non c’è più posto.