“Cosa avrei detto a Sinner un attimo prima che entrasse nello stadio per la finale? Goditi il momento. E porta a casa la coppa”. Flavia Pennetta è stata l’unica donna italiana a vincere l’US Open, nel memorabile derby del 2015 giocato con Roberta Vinci. È emozionata anche lei per il successo del Wonder Boy che ha riscritto l’album del tennis italiano. Due titoli Slam e tre Master Mille all’attivo, il trionfo in Coppa Davis, 55 vittorie e solo 5 sconfitte nel 2024, Jannik è in pole position per chiudere l’anno al primo posto del ranking, malgrado le cambiali pesanti da scontare prossimamente: i diecimila punti superati (per la precisione sono 10.480) corrispondono all’entrata in un esclusivo club di supercampioni. Meglio ancora è piazzato nella race, che determina gli otto maestri per le Finals di Torino. L’abisso dei 2885 punti di vantaggio sul secondo, il tedesco Zverev, rappresentano una precoce e matematica qualificazione. Il suo strapotere è tecnico, tattico, mentale, perfino fisico per doti di resistenza: l’altoatesino è il numero unissimo del mondo, altro che abusivo rispetto a zio Djokovic e ad Alcaraz, lo spagnolo che quest’anno s’è messo in tasca gli altri due Slam.
Com’è accaduto tutto questo? Torniamo al gennaio 2022, Open d’Australia, quarti di finale: Sinner viene messo sotto in tre set dal greco Tsitsipas. Malgrado la severa lezione è un risultato apprezzabile, eppure Sinner non ci sta. Vuole crescere, sente di poter fare di più. Così prende improvvisamente una decisione che appare temeraria: abbandona il coach Riccardo Piatti, che l’ha cresciuto nell’accademia di Bordighera come un padre putativo, e affronta il mare aperto. Il manager Alex Vittur, amico da sempre, gli consiglia un allenatore meno conosciuto ma di sicuro affidamento: si chiama Simone Vagnozzi, classe 1983, marchigiano, un passato di giocatore appena discreto. I due si intendono, comincia una collaborazione fatta all’inizio di alterni risultati: è tutto nuovo, tutto da sperimentare. Alla squadra in costruzione si aggiunge cinque mesi più tardi un pezzo da novanta: Darren Cahill, australiano saggio e di grande esperienza che ha portato sul tetto del mondo Andre Agassi, Lleyton Hewitt e Simona Halep. È la svolta.
Jan scala le classifiche, batte uno a uno tutti i migliori, a fine 2023 supera a Torino per la prima volta la leggenda Djoko, il cannibale dei 24 Slam. Il resto è storia di oggi. Le cifre però non dicono tutto. Quel che più conta è che Sinner sia diventato un orgoglio nazionale trasmesso al resto del mondo: New York è impazzita per lui, ne ammira lo stile misurato in campo e fuori, e accade lo stesso ovunque sia di scena. C’era il bel mondo del cinema, della moda, della musica e dell’economia in tribuna a Flashing Meadows per vederlo giocare: Dustin Hoffman e Matthew McConaughey, Taylor Swift e Bon Jovi, Anne Wintour — perché se il tennis è il gioco del diavolo, il diavolo veste Prada — e perfino Elon Musk. Un parterre come al Superbowl o alla finale Nba, ma molto più chic. Sinner piace perché è un fuoriclasse e non solo. Colpiscono i modi eleganti, la signorilità, la buona educazione, la lealtà e una dote rara: ha sempre un pensiero per gli altri. E’ capitato perfino che, durante un match importante interrotto per pioggia, abbia riparato con l’ombrello la raccattapalle seduta in panchina accanto a lui, informandosi sulla sua vita e i suoi studi. I bambini che lo adorano e lo assediano per catturare l’autografo? Si ferma con tutti, concedendosi paziente per una firma e un selfie: “Facevo lo stesso alla loro età, so quanto è importante, spero di essere d’ispirazione”, spiega.
A fronte di giocatori teleguidati dal box, sa cavarsela da solo. Se doveste naufragare su un’isola deserta, pregate che ci sia Sinner con voi sulla scialuppa: saprebbe di certo accendere un fuoco, procurare acqua e cibo, mandare i segnali ai soccorritori. Ha imparato presto, quando da ragazzino ha lasciato le Dolomiti e lo sci per il tennis: “È stata dura per me e la mia famiglia, li ringrazierò sempre di avermi concesso la libertà di scegliere”, racconta. Il padre Hanspeter e la madre Siglinde lavoravano in un rifugio, lui come cuoco e lei come cameriera, e ora gestiscono una pensione tutta loro a Sesto Pusteria. Poi c’è il fratello adottivo Mark, tre anni più di lui, “che è il mio miglior amico”. Non li vedete mai nell’angolo dei coach se non al torneo di Vienna, che è vicino casa: è gente riservata che lavora sodo. Proprio come il loro benedetto figliolo, che da qualche mese si vede con una bella ragazza russa, giocatrice si tennis: si chiama Anna Kalinskaya, non è sfuggito alle telecamere il bacio sui gradoni dello stadio al termine della finale.
Anche da noi è considerato uno di famiglia. È Paolo Rossi, è Alberto Tomba, è Valentino Rossi, è il campionissimo del cuore da tutelare come un bene protetto dall’Unesco. Così è per tutti. O per quasi tutti: il fango social l’ha investito perché ha la residenza a Montecarlo — ma lui vive lì, dove abitano i migliori giocatori con cui si allena, e torna dai suoi sì e no una settimana all’anno. È finito nel mirino degli “odioti” (neologismo) da tastiera anche dopo la rinuncia forzata alle Olimpiadi e il caso doping, senza che nessuno degli anonimi castigamatti si sia preso la briga di leggere le 33 pagine della sentenza di archiviazione: né dolo né colpa, hanno detto i giudici. Punto. Sono tristezze irrilevanti, che di Sinner non intaccano la ricerca della perfezione attraverso il lavoro, la gentilezza, il piacere dell’onestà. E la bellezza di questa estate, cominciata nel gennaio australe di Melbourne e arrivata oggi fino a New York, che meravigliosamente sembra non finire mai.