Un marziano caduto sulla Terra. O meglio sul cemento di Flushing Meadows, in un magnifico pomeriggio di sole a New York che profuma di felicità: Sinner ha stravinto la sfida con Taylor Fritz, irriducibile, che ha tentato invano di riportare in America il titolo degli US Open ventun anni dopo Andy Roddick. Tre set e tre ore e venti di partita — 6-3, 6-4, 7-5 lo score —, la finale è stata a senso unico lungo due terzi del match per accendersi nell’ultimo tratto. È lì che Jannik ha dimostrato per l’ennesima volta di essere un fuoriclasse assoluto, capace di segnare una distanza per adesso impareggiabile tra sé e gli inseguitori. “È stato troppo bravo, non ho retto il suo ritmo”, ha commentato desolato al microfono il californiano, che pure ce l’ha messa tutta per restare aggrappato al treno in corsa. A lui va l’onore delle armi. Però, il ragazzo rosso oggi è calato davvero da un altro pianeta. San Candido bette San Diego: siamo o no un popolo di eroi, poeti navigatori e naturalmente di santi?
Il primo set è cominciato subito in discesa, con Sinner pronto a fare il break approfittando dell’avvio difficile del rivale, numero sette nella classifica virtuale. Pur avendo vinto il sorteggio, curiosamente Fritz ha lasciato la scelta al campione azzurro che ha preferito rispondere. La mossa felice gli ha consentito di prendere un vantaggio già significativo, smarrito però da lì a poco: un doppio fallo e uno sciagurato schiaffo al volo hanno regalato il controbreak allo sfidante. L’equilibrio è durato un attimo, perché come spesso succede il settimo game ha scavato il solco. Lo chef altoatesino — gli ha spiegato il padre cuoco come si sta tra i fornelli — ha cotto il rivale a fuoco violento, preparando un menù di alta classe: scambi in spinta, palla nell’angolo, smorzata mortifera. Tra ricami e colpi di scalpello, il conseguente 4-3 è stato un decollo vertiginoso verso il traguardo. Dritto diagonale stretto, prima in slice e poi alla T, rovescio incrociato sulla riga, la risposta flash d’incontro: Jannik ha apparecchiato la tavola con le posate d’argento e il servizio buono, chiudendo il set 6-3 in 41 minuti. Che banchetto.
La seconda frazione ha offerto qualcosa di diverso. Fritz s’è guardato dentro e ha capito che con il 38 per cento di prima palle sarebbe stato impossibile sognare la gloria. Così ha cambiato ritmo, mettendo in moto schemi consolidati. Ricordandosi d’essere uno dei più temuti big server del circuito, ha cominciato a picchiare con l’arma privilegiata. Quanto all’azzurro, ha proseguito a cucire la trama della partita che voleva, in attesa del momento propizio. Nell’alternanza dei servizi il match è corso via veloce, anche se Jannik dava l’impressione di poter strappare da un momento all’altro: il gioco di gambe e il punch, volare come una farfalla e pungere come un’ape, ovvero la grande lezione di Muhammad Ali trasportata dalla boxe a un tennis da cineteca. E in più la forza mentale fuori da ogni logica, emersa clamorosamente sul vantaggio di 5-4. Con tutta la pressione sulle spalle dell’americano, Sinner ha messo in atto un’idea semplice e geniale per scardinare il meccanismo dell’avversario. Ha cioè risposto da lontanissimo, entrando nello scambio e rallentando il gioco per accelerare d’improvviso. Senza più certezze, Taylor è scivolato su due palle set: è bastata la prima per filare 6-4, con il sigillo di un rovescio lungolinea portentoso.
Sapienza tattica, la capacità assimilata quotidianamente di saper leggere il momento: il terzo set è cominciata sulla falsariga del precedente. Ma quando pareva che la fine fosse dietro l’angolo, ecco il colpo di coda dell’americano. Fritz — all’arrembaggio — ha sfruttato un minuscolo passaggio a vuoto di Jan per strappargli il servizio, salire 5-3 e portarsi dietro l’entusiasmo del pubblico: 23.771 persone stipate sull’Arthur Ashe, tra aficionados e personaggi dello showbiz. Mentre si materializzava la prospettiva di un quarto set, il numero uno del mondo ha sprangato brutalmente la porta. Giocando con cattiveria e precisione, ha infilato quattro game di fila fino a prendersi il punto del campionato: 7-5 e tutti a casa. È il secondo Slam di un anno fantastico dopo gli Open d’Australia, con il primato in classica e nella race consolidato e la consapevolezza di poter ancora migliorare — è questo l’avviso ai naviganti. Tutto questo a 23 anni e 24 giorni: teniamocelo stretto uno così.
“È un successo che significa molto, l’ultimo periodo non è stato facile”, ha ammesso il campione dell’US Open con il trofeo nelle mani alludendo all’inchiesta doping, conclusa con l’assoluzione piena. E poi, spegnendo il sorriso: “La squadra mi è stata sempre vicina. Io amo il tennis, mi alleno duramente ma oltre il campo c’è la vita. Dedico la vittoria a mia zia, che non sta bene e non so per quanto tempo ancora starà con noi”. L’ultimo pensiero è per quelli che gli vogliono bene, e sono tantissimi: “Sono felice e orgoglioso di condividere il titolo con la mia famiglia, gli amici veri, i tifosi da casa e il pubblico qui che è stato onesto e corretto con me”. Lo sguardo con gli occhi umidi verso un tricolore sventolato in tribuna è l’unico tributo all’emozione malcelata, prima che finalmente la festa cominci. Una grande festa italiana a New York.