I bookmaker hanno rivisto al ribasso la quota dell’esonero di Massimiliano Allegri. Prima che la Juve perdesse a Verona la sua quarta partita su undici, lo pagavano sedici volte la posta e ora, giocando un euro, se ne prendono due. Meglio tenersi in tasca quell’euro, perché Allegri costa alla Juve diciotto milioni netti a stagione e pagargli tre anni e mezzo di stipendio per lasciarlo sugli scogli di Livorno a prendere il sole non pare una soluzione economica sensata.
La Signora del calcio italiano è in crisi. Decima in classifica, con 15 punti in 11 giornate, al pari di Bologna e Verona, e meno della metà dei punti (31) che contano le capolista Milan e Napoli. Lontana dallo scudetto lo era anche l’anno scorso, ma a tenerla ancorata alla zona Champions era un certo Ronaldo.
Solo che CR7 era stato preso per vincere in Europa e lì i bianconeri si sono fermati ai quarti, dopodiché hanno fatto due conti: perché pagare trentuno milioni di euro netti a stagione a un fenomeno, se i risultati in Europa sono gli stessi di prima?
Dopo le due finali Champions perse nell’arco di tre stagioni, per la Juve arrivare sul tetto d’Europa era diventato un assillo. Tutto è stato fatto in funzione della ribalta internazionale, come se i novi scudetti di fila fossero stata soltanto una simulazione di lancio, in attesa della missione spaziale.
Cristiano Ronaldo doveva essere il capitano che guida la squadra alle Guerre stellari. Ma da quella navicella, che vaga da due anni nello spazio, ormai arrivano soltanto flebili segnali e il rischio di perdere i contatti è elevato. Il capitano ha capito che la sua presenza ormai era superflua oltre che molto onerosa, quindi si è trasferito a Manchester.
L’adesione di Andrea Agnelli alla Superlega (osteggiata dalle federazioni e subito naufragata) va letta come una conferma: alla Juventus l’Italia andava stretta e così si spiega perché fosse affranta dopo l’eliminazione in Champions e abbia festeggiato gli ultimi due scudetti con le stesse facce che avevano gli staffettisti inglesi dopo la finale di Tokyo vinta dagli italiani.
Allegri, tre stagioni fa, aveva vinto lo scudetto ma non la Champions e non gli fu rinnovato il contratto perché serviva chi, attraverso un gioco rapido e preciso come quello di Liverpool o Manchester City, desse alla Juve respiro e prestigio internazionali. Toccò quindi a Sarri, che invece si limitò a ricalcare il percorso del suo predecessore: vinse lo scudetto (il nono di fila per i bianconeri), ma dall’Europa sparì troppo presto. Via anche lui, per fare posto all’esordiente Pirlo che in Europa ha rinnovato l’astinenza ma che non ha messo in bacheca neppure quel premio di consolazione chiamato scudetto.
Da qui la restaurazione, con il ritorno di Allegri che oltre a vincere il ‘solito’ scudetto, almeno in finale di Champions ci arrivava. Niente da fare: il titolo è scivolato via dalle mani di Allegri alla stessa velocità con cui Ambra Angiolini, la ex fidanzata, se n’è andata da casa sua.
E’ doveroso domandarsi perché invece di allargare i suoi orizzonti, la Juve in due stagioni li abbia visti restringersi tanto da essere, oggi, una comparsa della serie A e non più la indiscussa protagonista.
Nessuna meraviglia. Se un gruppo di dirigenti fissa come obiettivo il primo posto in Europa e cambia due allenatori che si sono ‘limitati’ a vincere lo scudetto, pare ovvio che la squadra recepisca questo messaggio: dell’Italia ci importa relativamente, noi vogliamo una squadra da esportazione. A questo punto perché i giocatori dovrebbero impegnarsi come e più di prima per vincere un campionato che non porta sufficiente denaro e che si limita a produrre qualche sorrisetto di compiaciuta circostanza?
Questo è successo alla Juve: ha deprezzato le vittorie in serie A per privilegiare quelle in Europa e rischia di rimanere senza capra né cavolo. Anche se, va detto, la squadra di Allegri è sbarcata agevolmente agli ottavi di Champions, rinnovando la speranza che questo possa essere l’anno buono.
Ma è dura crederci con convinzione se l’allenatore, dopo l’ultima sconfitta in campionato, ammette realisticamente di avere per le mani una Juve da metà classifica. Può chi veleggia al decimo posto in Italia ambire a battere il Psg, il City, lo United, il Bayern o il Real Madrid? Da vincitrice di scudetti a raffica, la Juve è scivolata in purgatorio e l’impressione è che il girone europeo lo abbia superato agevolmente per manifesta inferiorità degli avversari, non grazie alla sua identità e alla sua forza.
Ora, in Italia, si sa, la metà dei tifosi spasima per la Juve e l’altra metà la detesta perché la considera espressione di un potere a volte arrogante. Ma negli anni più bui del nostro calcio, se non ci fosse stato il club bianconero a tenere il nostro movimento calcistico agganciato al convoglio delle più forti, oggi la serie A avrebbe lo stesso appeal del campionato cinese, imbottito di vecchie glorie strapagate per vestire lo spettacolo con l’abito della festa e pazienza se poi in campo va in scena uno stucchevole minuetto. Quindi, se la Juve diventa una squadra qualsiasi, è molto probabile che dello stesso segno diventi il nostro campionato.
Aspettiamo smentite a stretto giro di posta da Napoli, Milan e Inter.