Un agguato prima del match, quattro tifosi accoltellati, l’ultrà investito e morto durante la notte; l’espulsione di Kalidou Koulibaly che perde la pazienza dopo ottanta minuti di ululati razzisti e applaude l’arbitro Mazzoleni; il rosso a Lorenzo Insigne per un fallo di reazione contro Keita Baldé: è questo il pesante bilancio del posticipo di Santo Stefano tra Inter e Napoli.
Le cronache da San Siro – risultato finale 1 a 0, gol di Lautaro Martinez al 91’ e la Juventus vola a +9 – lasciano poco spazio al commento sportivo. Sugli spalti del Meazza e in via Novara, mercoledì sera, non c’era traccia di spirito festivo, passione o entusiasmo calcistico. Il questore di Milano ha chiesto lo stop alle trasferte nerazzurre per tutto il campionato e “l’immediata chiusura della curva dell’Inter fino al 31 marzo 2019” e, mentre il presidente della FIGC annuncia “ora tolleranza zero”, è arrivata la decisione del giudice sportivo. Nella sentenza, il conclamato pugno di ferro si è tradotto in due partite “prive di spettatori e un’ulteriore gara con il settore secondo anello privo di spettatori”. Misure dure, stangata, o almeno così scrive la stampa italiana.
Tornano alla memoria i precedenti europei e quelle sì, severe, sanzioni dalle quali le società e i legislatori italiani dovrebbero trarre ispirazione. In Villareal-Barcellona del 27 aprile 2014, Dani Alves ricevette una banana sulla bandierina del calcio d’angolo. L’autore del gesto fu subito identificato grazie all’aiuto dei presenti, radiato, estromesso a vita dal Madrigal e arrestato per violazione dell’”articolo 510.1 del codice penale spagnolo che prevede forti punizioni per crimini di discriminazione, odio o violenza per motivi razzisti”, come riportò Fox Sports.
Bersagliato per anni dai media inglesi, l’attaccante del Manchester City e della nazionale Raheem Sterling fu assalito verbalmente e fisicamente prima del match contro il Tottenham del 16 dicembre 2017. Pochi giorni dopo, la Corte condannò a quattro mesi di reclusione il supporter del Manchester United reo dell’aggressione aggravata da odio razziale. Barney Ronay ha spiegato sul Guardian come Sterling sia diventato il perfetto capro espiatorio della rabbia collettiva e indiscriminata: “Non è difficile capire il perché. Innanzitutto, si chiama Raheem e non Dave o Fred o Nigel” e ha aggiunto inoltre che “non c’è da stupirsi se Sterling sia stato attaccato in questo modo. La violenza e la rabbia non esistono in un vuoto”. Ad ottobre, il quotidiano ha pubblicato la notizia dell’aumento del 123% dei crimini dell’odio in Inghilterra e Galles per l’ultimo quinquennio, impennata riconducibile – secondo l’UK Home Office – a “eventi come il referendum sull’UE e gli attentati terroristici del 2017”.
Sul fronte italiano, dal Viminale dichiarano che “non si può morire per una partita”, ma Salvini non si esprime né sui “buu” a Koulibaly, né sui cori denigratori verso la città di Napoli. Forse gli toccherebbe ricordare il non troppo lontano passato in cui lui stesso era uno dei più animati “cantanti” di questo motivetto. Quindi dovrebbe chiarire perché sia stato immortalato, sprizzante di gioia, in compagnia di Luca Lucci, curva sud rossonera, fresco di prigione per traffico di droga e già colpevole di aver accecato un tifoso rivale. (In mattinata l’amico degli ultrà/capo delle forze dell’ordine ha definito “risposte sbagliate” la chiusura degli stadi e il divieto di trasferte, senza peraltro proporre soluzioni alternative oltre a quella di disputare gli incontri “più a rischio alla luce del sole”).
Sul web molti scrivono che nel mondo del pallone il razzismo è sempre esistito e non è colpa dell’attuale governo se certi episodi si ripetono persino nel 2018. Questi utenti si dimenticano che, dopo anni di tweet e post carichi di odio, il leader della Lega è responsabile di aver creato terreno fertile per la retorica anti-immigrati. L’insulto è ormai talmente sdoganato che abbiamo smesso di sentire pure l’ipocrita premessa alle offese “io non sono razzista, ma…”.
È assurdo che, con la tecnologia a disposizione, sia così difficile prevenire, identificare e isolare. È meno assurdo, però, se manca la volontà politica di agire e reagire, così come è mancato il coraggio dell’arbitro di applicare il regolamento e sospendere la partita.
Mentre da club, opinionisti e personaggi dello spettacolo è partita la gara di solidarietà nei confronti del difensore napoletano, mi chiedo quanto valgano queste parole a posteriori. Non è più calcio quando c’è violenza, non è più gioco anche se i giocatori restano in campo e continuano a correre.
Mi viene in mente un episodio al quale ho assistito, inerte, durante Liverpool-Napoli alla pizzeria Ribalta di New York lo scorso 11 dicembre. Uno pseudo-tifoso – e pseudo-uomo – ha seguito un’azione di Koulibaly apostrofandolo sullo schermo: “Vai, n…!”. Nonostante la sua esortazione mi abbia provocato disgusto per il resto della giornata, sul momento non sono stata in grado di replicare a quell’ingiuria. Anch’io ho taciuto per poi esternare il mio senso di impotenza e la mia frustrazione altrove, sui social network e nei circoli di amici che comunque mi danno ragione.
Ma oggi non basta unirci all’hashtag #SiamotuttiKoulibaly: finché non manderemo messaggi forti contro il razzismo e l’odio, ne saremo tutti ugualmente e irrimediabilmente complici.