Il Rugby premia chi osa, premia chi rischia, chi inventa, sempre che tutto questo avvenga sulla base dell’indispensabile manuale. Così, la squadra del momento nella Coppa del Mondo che dal 18 settembre si svolge in Inghilterra e Galles, è il Giappone; sissignori, il Giappone che ha saputo compiere la “mitologica” impresa di battere il formidabile Sudafrica, che – sempre contro le previsioni di molti – ha surclassato una Potenza del Pacifico, Samoa, e ieri sera ha piegato, ma non senza una certa fatica, gli Stati Uniti (28 a 18) nell’ultimo incontro dei gironi di qualificazione per i quarti di finale che nel prossimo fine-settimana presenteranno queste partite: Francia – All Blacks, Argentina – Irlanda, Galles – Sudafrica, Scozia – Australia.
Al Giappone è risultata fatale la sconfitta (10 a 45) contro la Scozia, sconfitta dovuta, forse, alle conseguenze dell’enorme sforzo psico-fisico sostenuto dai nipponici contro i sudafricani campioni del mondo nel 1995 e nel 2007. Esce quindi dal Mondiale una squadra che ha vinto la bellezza di tre partite, ma sulla quale è pesato appunto il passivo riportato nello scontro diretto con gli scozzesi.
Esce la compagine d’un Paese che fino a soli vent’anni fa forse ne avrebbe buscate anche dal Frascati, dal Rovigo, dal Treviso… Ma che ora giganteggia in un mondo assai complesso il quale esige serietà, applicazione, costanza, disciplina, aspirazione al miglioramento tecnico individuale e collettivo. E’, appunto, il mondo del Rugby, è la dimensione nella quale l’estro conta parecchio, ma a nulla conduce se esso non viene sfoderato sulla base del metodo, come d’altro canto si fa ben poca strada se si punta, certo, sul “solo” manuale.
Le gesta del Giappone sono d’ insegnamento, soprattutto, alla nostra Nazionale, alla nostra dirigenza, vale a dire quella federale; al modo in cui si svolge la vita della nostra Nazionale, e alla maniera in cui sono regolati i rapporti fra vertici e giocatori. L’Italia ieri ha battuto (32 a 22) la Romania reduce da una spettacolosa vittoria sul Canada; ha brillato, furoreggiato per 60 minuti e piazzato quattro pregevoli mete per poi subirne tre nel finale, e ha così macchiato una prova lusinghiera non appena ha ceduto al prepotente, ammirevole ritorno romeno. Ancora una volta è mancata la continuità, è mancata perciò la costanza; di nuovo, non s’è vista l’Italia che, proprio nel finale, schianta un avversario resosi a lungo temibile. Come avveniva invece nella seconda metà degli anni Novanta.
L’Italia, la Federazione Rugby Italiana… Il clima qui è ‘politico’, è fatto, sissignori, di silenzi, di reticenze, d’omertà quando invece nell’”accampamento” nipponico tutto si svolge alla luce del sole, non ci sono quindi segreti, non ci sono intese e acquiescenze nascoste.
Eccoci così al caso-Parisse… A Sergio Parisse, capitano e deus ex machina della Nazionale il cui club è lo Stade Français; giocatore tanto potente quanto scaltro, estroso, un campione, insomma, ammirato da inglesi, neozelandesi, australiani. Parisse da qualche tempo soffre di problemi al polpaccio destro, per cui, in tempi relativamente recenti, è stato sottoposto a operazione chirurgica. In modo da farla breve, il campione ieri non è sceso in campo contro la Romania. Non vi è sceso per via di pressioni “nascoste” da parte del suo club, pressioni alle quali lui stesso e, con lui, la Federrugby hanno ceduto senza pensarci due volte? Questo è verosimile, eccome se lo è. E allora è una resa da parte della nostra Federazione e anche una resa da parte di un giocatore-simbolo che, forse, ora simbolo potrebbe più non essere. Il Rugby italiano, le falangi di tifosi dell’Italrugby commoventi per l’attaccamento passionale verso una Nazionale non proprio “demolitrice”, hanno il diritto di sapere come stanno le cose; hanno il diritto di non essere ingannati, di non essere presi in giro. Ma si teme che questo diritto mai verrà riconosciuto dallo stesso Parisse, nè tantomeno dalla insopportabilmente salottiera Federazione italiana bravissima in una sola occupazione: allestire rinfreschi con squisite tartine al salmone e col solito Prosecco, distribuire cravatte, agende, spille a personaggi compiacenti, campioni, sì, di piaggeria, d’adulazione. Sì, signor Parisse, sia quindi lei a farci sapere come stanno le cose, visto che il “”palazzo”” del rugby italiano d’oggigiorno non ha nessuna intenzione di parlare con sincerità a chi reclama la giusta schiettezza.
E’ questo il nostro Rugby, quello “ufficiale”, ormai lontano dalle fabbriche, dai campi, dalle scuole. E’ il Rugby, sì, dei misteri, del sottaciuto, delle connivenze. Il Rugby che nella Coppa del Mondo 2015 affonda dopo due prove insipienti, avvilenti, contro Francia e Irlanda. Ma se solo gli Azzurri avessero giocato contro francesi e irlandesi come si sono presentati ai romeni nei primi sessanta minuti…
E così, un’altra occasione mancata, l’ottava dal 1987. I quarti di finale… Approdo impossibile? Impossibile, sì, per i “mondani”, o pseudo-mondani i quali controllano la Federrugby e nel culto dell’”immagine” bischera e luccicante trascurano, ignorano, lasciano avvizzire grandi talenti nazionali. Talenti abruzzesi, campani, siciliani, veneti, lombardi.
Non così il Giappone, certo che no. Tornano presto a casa anche i nipponici, ma vi tornano sulla scorta delle umiliazioni da essi inflitte al Sudafrica, a Samoa, agli Stati Uniti.
Tempestosa questa nuova “Iwo Jima”, stavolta combattuta non nel Pacifico, non alle porte del Giappone, bensì a Gloucester, in Inghilterra, in una cittadina alla quale fanno corona ‘cottage’ che evocano Dickens, le Bronte, Virginia Wolf, G.B. Shaw, Somerset Maugham.
Tre mete hanno segnato i giapponesi; due, quelle piazzate dagli americani dimostratisi ancora una volta grandi combattenti. La “battaglia” è stata “di nuovo” aspra, cruda, “uncompromising”. Non è sembrata una “semplice” partita di Rugby, ma qualcosa di ancora più “alto”, di più “solenne”… Come ha osservato con prontezza negli studi televisivi di “Sky”, John Kirwan, neozelandese, campione del mondo con gli All Blacks nel 1987 ed ex-allenatore dell’Italia, “per ogni giapponese una vittoria sugli americani è il massimo”. E’ stata lotta senza quartiere, pallone su pallone, metro su metro, bava alla bocca. Qualcosa di autenticamente ancestrale animava nella veemente contesa gli uni e gli altri.
Così è stato.
Ma il Giappone torna appunto con onore ai propri, idilliaci lidi. Noi torniamo invece ai nostri nel segno d’una mediocrità di cui potremmo comunque liberarci se solo il potere tornasse alla base o se i vertici comprendessero l’utilità d’ascoltare, di seguire la base.