In questi giorni si fa un gran parlare della possibilità di avere le Olimpiadi qui a Roma nel 2024. Alcuni sostengono che sarebbe un’autentica follia perché la città ha già così tanti di quei problemi da risolvere che spendere un sacco di soldi per i giochi estivi proprio non sembra il caso. Altri invece pensano che sarebbe giusto riportare questo evento nella città eterna dopo tanto tempo, esattamente dopo ben 64 anni, tanti sarebbero nel 2024. Sono questi i sostenitori della visibilità a tutti i costi, pensano che l’immagine della nostra città nel mondo tornerebbe molto utile per gli anni futuri.
A parte il fatto che la nostra città nel mondo ha sempre avuto e ha tuttora una visibilità notevole, io posso solo dire, un po’ egoisticamente in verità, di non averne proprio così bisogno di queste nuove Olimpiadi, anche perché le mie le ho già avute e sono state bellissime. Sto parlando di quelle del 1960, le prime nel nostro paese dell’era moderna. In realtà l’Italia aveva avanzato la propria candidatura ad ospitare i giochi olimpici già all’inizio del secolo, per l’edizione del 1904, ma fu battuta allo sprint dalla città americana di St.Louis. Si era poi vista affidare l’edizione successiva, quella del 1908, ma ci fu la grande eruzione del Vesuvio, catastrofe nazionale, che ci obbligò a rinunciare e a dirottare i fondi destinati ai giochi alla ricostruzione di Napoli. Mussolini aveva poi ottenuto quelle del 1944, che avrebbero fatto seguito ai giochi organizzati dal suo amico Hitler nel ’36, ma anche lì ci si mise di mezzo proprio il baffo tedesco con la sua guerra mondiale a rovinare tutto.
Dovettero passare altri sedici anni perchè gli italiani, e i romani soprattutto, potessero avere dal vivo i loro “momenti di gloria”, dal titolo del celebre film inglese sui giochi olimpici. Per l’occasione fu costruito qui un nuovo centro residenziale per gli atleti, il cosiddetto Villaggio Olimpico, nel quartiere Flaminio, quindi molto vicino al centro storico, in modo che gli atleti non si sentissero isolati dalla città, e anche in prossimità di molti dei luoghi deputati alle gare come il palazzetto dello Sport, lo stadio dei Marmi e lo Stadio Olimpico. Gli organizzatori ebbero anche un altro merito, riuscendo a vendere bene il prodotto-giochi al neo-mercato televisivo, forse per la prima volta nella storia. Il Comitato organizzatore vendette infatti i diritti alla CBS per 660.000 dollari e alla Eurovisione per 540.000 dollari.
Era il 1960 e io avevo appena compiuto 9 anni. Mio padre aveva voluto davvero sbancare il botteghino comprando un bel carnèt di biglietti e così io andai vedere un po’ di tutto, accompagnato da lui oppure da qualche altro parente.
In quella lontana estate italiana, dal 25 agosto all’11 settembre, il sottoscritto passava felice da un incontro di lotta greco-romana che si teneva dentro l’antica Basilica di Massenzio edificata all’inizio del IV° secolo a.c. ad un incontro di pugilato al Palazzo dello Sport, moderno impianto realizzato per l’occasione dall’architetto Marcello Piacentini e dall’ingegner Pier Luigi Nervi. Ricordo ancora il gigantesco americano di colore che danzava intorno agli avversari, leggero come una piuma, e poi li stendeva con un paio di potenti uppercut. Si chiama Cassius Clay e avrebbe fatto la storia della boxe mondiale. Su quel ring salì anche un altro celebre boxeur nostrano, anche lui destinato a diventare molto famoso. Il suo nome era Nino Benvenuti e qualche anno più tardi diventerà campione del mondo dei pesi medi. In quella olimpiade, oltre all’oro, vinse anche la prestigiosa Coppa Val Barker, destinata al pugile tecnicamente migliore di tutto il torneo.
Ero lì, allo stadio Olimpico, quando per la prima volta nella storia un italiano riuscì a strappare la medaglia d’oro dei 200 metri. Il torinese Livio Berruti, magro e leggero come un fuscello, strapazzò i palestrati sprinter americani e tagliò il traguardo in uno splendido 20,5”, mentre tutti noi, sugli spalti lo applaudivano, impazziti di gioia.
Ero lì anche mentre la gazzella statunitense Wilma Rudolph, ventesima dei 22 figli di un agricoltore del Tennessee, che da bambina era stata colpita dalla poliomelite, vinceva le sue tre medaglie d’oro nei 100, nei 200 e nella staffetta 4×100.
Ero al Velodromo Olimpico, oggi purtroppo demolito, quando il nostro Sante Gaiardoni si aggiudicò la prova di velocità, battendo il belga Leo Sterckx, dopo aver già trionfato nella prova a cronometro in pista sui 1000 m. ed ero anche alla Piscina quando i nostri pallanuotisti conquistarono l’oro guidati dal grande capitano Eraldo Pizzo. Ricordo che solo un improvviso attacco di febbre mi fermò dall’andare a vedere dal vivo i successi di Franco Menichelli nella ginnastica artistica e quelli dei fratelli d’Inzeo nell’equitazione, ma nessuno, davvero nessuno, mi impedì di scendere in strada ad applaudire quell’incredibile atleta etiope di nome Abebe Bikila che, a piedi scalzi, andava a vincere la prima Maratona notturna della storia alzando le braccia al cielo sotto l’arco di Costantino.
https://youtube.com/watch?v=E4OogIhFCJk
Era stata questa la grande Olimpiade romana. Bella, romantica, spettacolare e vissuta da tutti, atleti e spettatori, con il cuore e con un entusiasmo inimmaginabile, in un periodo in cui tutto sembrava possibile e tutto stupiva per la sua novità.
Io ero lì. Io c’ero. Con gli occhi strabiliati di un ragazzino che guardava il mondo a bocca aperta, affascinato da tutto. Posso mai sperare in qualcosa di simile per il futuro? Non credo. Penso invece che, come Greta Garbo che ha scelto di chiudere la propria incredibile carriera cinematografica all’apice del successo, il Comune di Roma dovrebbe lasciare al mondo il ricordo di quelle meravigliose Olimpiadi, senza desiderio di bissare un successo assolutamente irripetibile.
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