Se non fosse un preoccupante indice della deriva verso l’insignificanza dei discorsi generati o riportati dai media, l’intervista rilasciata alcuni giorni fa da Mario Balotelli a un tabloid inglese e ripresa da vari quotidiani italiani sarebbe comica. A cominciare dai titoli. Quello della Stampa, per esempio: “Balotelli: In campo sono come Tyson ma Papa Francesco m’ispira nella vita”.
Non so se tutti ricordino Mike Tyson e il fatto che fu condannato a sei anni di prigione per stupro (ne scontò tre) e che dopo aver guadagnato oltre trecento milioni di dollari finì in bancarotta. Fu anche un alcolizzato, un cocainomane e un pessimo padre (otto figli avuti in varie relazioni). Che razza di modello sarebbe? È vero, anche lui, come Balotelli, collezionava auto di lusso.
Però Balotelli ha detto che è “in campo” che si sente come Tyson. Davvero? Fu sul ring che Tyson staccò con un morso al suo avversario la cartilagine dell’orecchio. È questo che intendeva? Forse piuttosto Balotelli si riferiva al fatto che Tyson era un duro: lo chiamavano Iron Mike. Bè, Iron Mario non sembrerebbe il soprannome adatto a uno che si lamenta ogni volta che subisce un intervento deciso, che cade a pezzi appena messo in discussione e che scoppia in lacrime quando perde.
Quanto alla vita di Balotelli, in che modo un milionario viziato e arrogante, che anche lui fa figli senza badarci e che ama il denaro e ancor di più ostentarlo, possa condividere il messaggio di eguaglianza e umiltà di Papa Francesco, proprio non riesco a capirlo. È vero, nell’intervista Balotelli dice di credere in Dio. In che senso? Certo non come invito a riconoscere Cristo nei bisognosi, nei poveri, negli ultimi. Spiega Balotelli: “Dio mi aiuta a calmarmi”. Un ansiolitico privato, personale, come il valium.
Per questo quel titolo è comico: perché, sia pure involontariamente, ribalta la realtà: nella realtà Balotelli è ispirato da Papa Francesco in campo e da Tyson nella vita.
Niente di comico c’è invece nel fatto che milioni di persone facciano di personaggi come Balotelli i loro idoli, e non si limitino a guardarli giocare, se giocano bene (che a lui non capita sempre), ma vogliano imitare i loro comportamenti e ascoltare quello che dicono, anche quando sono assolute stronzate, nel senso tecnico dato alla parola dal filosofo Harry Frankfurt: un tipo di discorso che consiste nel fare affermazioni serie, e non necessariamente sbagliate o insincere, ma con leggerezza, senza davvero preoccuparsi delle loro implicazioni e senza credere che sia indispensabile verificarle e darne prova e dimostrare rispetto a esse una qualche coerenza.
Tutto ciò non avrebbe molta importanza se il sistema del gossip e delle celebrity non fosse che un circo, ossia un teatro delle meraviglie in cui si entrasse una volta all’anno per vedere cose fuori dell’ordinario sapendo che lo sono. Purtroppo invece è un apparato di manipolazione e controllo della vita quotidiana, che serve a distogliere l’attenzione della gente dai suoi effettivi problemi ma ancor di più a renderla incapace di avvertire la differenza fra esigenze reali e desideri indotti, fra persone concrete con cui crescere, confrontarsi e condividere esperienze, e gli avatar fabbricati dall’industria dello spettacolo.
Di alcune figure di riferimento l’umanità ha sentito sempre bisogno: grandi personaggi, a volte grandi davvero a volte no, ma pochi, condivisi, di lunga durata: personificazioni del desiderio di continuità o viceversa di cambiamento. Quella attuale è invece una proliferazione di uomini senza vere qualità e incapaci di empatia, riconoscibili solo grazie all’ossessiva pubblicità dei media e destinati a dissolversi non appena l’attenzione si sposti su qualcun altro: un sintomo drammatico di un mondo che non sa più vivere ma solo consumare.
Felice il paese che non ha bisogno di eroi, disse il Galileo di Bertolt Brecht. Altri tempi. Oggi mi accontenterei di un paese che non avesse bisogno di celebrity.
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