Prendete la ristorazione, aggiungete la nutraceutica, condite con tanto metodo scientifico e otterrete la ristoceutica, una nuova parola macedonia. Da me coniata nel 2016 alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa per indicare una nuova linea di ricerca, diventa nel 2020 il titolo del mio primo libro edito da Mondadori. Ma di cosa parla?
Ho sempre creduto che il cibo fosse alla base della salute e del benessere umano di là dall’essere solo sinonimo di sostentamento. Ed è strano dirlo, ma il mondo della scienza medica ha iniziato a liberare gli chef dall’ossessione dell’estetica del cibo solo da alcuni anni, rispettando l’alimento come una naturale sorgente di nuovi composti chimici senza calorie cui ispirarsi per migliorare la salute. Se mi parlavi di cibo il pensiero andava al piacere dei sensi e alla sua accessibilità, poi al peso delle calorie, quindi al valore nutrizionale e a chi lo avesse preparato, e infine alla scadenza. Tutto questo fino al 2010, quando durante un esperimento osservai che alcuni composti chimici, presenti anche in alimenti comuni, fossero in grado di attivare geni vitali nelle cellule del cuore così da proteggerlo. All’improvviso, alcuni ingredienti mediterranei che credevo di conoscere sin da bambino si rivelarono veri e propri alimenti officinali da usare con cura in una dieta bilanciata. Sebbene la scienza continui a restituire il bugiardino ai singoli alimenti, sappiamo che a tavola non ci cibiamo mai di solo orzo o olio extravergine d’oliva, pesce azzurro o cicoria, melagrana o mela annurca, piuttosto li associamo. Ma come? Una volta escluse le intolleranze o le incompatibilità con i farmaci, oggi associamo gli alimenti sulla base del gusto e delle calorie, senza sapere nulla delle loro proprietà epigenetiche con cui modulano l’espressione genica senza cambiare la sequenza del nostro DNA.
Non sorprende se un’esigenza subito avvertita sia stata quella di voler cercare e studiare le associazioni di alicamenti stagionali nelle giuste quantità, interi o trasformati, crudi o cotti in vario modo, al fine di creare un gustoso pasto funzionale che attivi i geni protettivi e disinneschi quelli che ci rendono più fragili o ci fanno invecchiare male.
La ristoceutica, come racconta il mio libro, vuole spostare il paradigma dal food al meal discovery. Nonostante la rivista “TheFork” abbia già inserito la ristoceutica tra le 20 food experience al ristorante del 2020, mi auguro che quanto prima sempre più laboratori di ricerca vogliano dedicarsi alla ristoceutica dimostrando le proprietà epigenetiche di un piatto funzionale prima che questo sia servito nei ristoranti o nelle mense di scuole e ospedali. Già, perché non ci capita spesso di sentir parlare di sinergie, addizioni o antagonismi alimentari a tavola, ma è compito della ristoceutica occuparsene.
La scelta di ciò che mettiamo nel piatto potrebbe renderci più resistenti o meno tolleranti a pericolosi fattori di rischio di malattia, come l’obesità, lo stress psicosociale, l’inquinamento o il cambiamento climatico. La ristoceutica ci aiuterà a non tralasciare alcuni alimenti funzionali della dieta mediterranea, come la borragine, i semi oleosi o i legumi, capaci di educare le cellule a selezionare alcune vitali informazioni rendendole disponibili ed ereditabili fino alla terza generazione. Alimenti che funzionano come veri e propri interruttori biochimici capaci di ottimizzare la comunicazione tra i nostri organi vitali anche mentre dormiamo.
La ristoceutica, come descritto nel mio libro, vuole colmare un vuoto conoscitivo. In effetti, non sappiamo come le risposte innescate dalla porzione di un singolo alimento funzionale, come il broccolo, possano essere personalizzate con l’ingestione di altri alimenti epigeneticamente attivi, come il salmone o il tè rosso africano. La conoscenza di un elenco di singoli principi attivi commestibili, oggi estratti solo per produrre degli integratori, senza tenere conto delle matrici organiche in cui si trovano in natura e delle trasformazioni che subiscono in cucina non basta a sfruttare fino in fondo tutti i superpoteri di un pasto.
Con la ristoceutica non rinunceremo ai benefici di alimenti discriminati dalle diete a causa dell’attuale incapacità di saperli gestire vista l’assenza di evidenze e potremmo anche evitare gli sprechi. Un esempio tipico sono le carni rosse, fonti essenziali di vitamina B12, acido folico e amminoacidi essenziali. Lo sapevate che guardare al loro contenuto in omega 3 e omega 6 potrebbe aiutarci a sceglierle come ad associare il giusto contorno? E che dire del latte? Lo sapevate che bere latte scremato non è la scelta migliore perché ci priva della cardioprotettiva vitamina K2? E se invece associassimo il latte fermentato alle fibre?
Nel mio libro cerco di riabilitare anche il soffritto, una reazione chimica utilissima per la salute se guidata in modo corretto. Inoltre, non mancano tanti esempi di associazioni tra alimenti funzionali la cui efficacia è stata dimostrata di recente, sebbene già tramandati dalle tavole contadine a quelle stellate per gusto. Ad esempio, qualora associassimo le cipolle rosse cotte al forno ad alimenti molto ricchi di vitamina C, come i peperoni dolci, potenzieremmo la biodisponibilità della quercetina delle cipolle, un flavonoide utile a combattere i disturbi metabolici e infiammatori perché aumenta sia la metilazione del DNA, rendendolo più stabile, sia l’acetilazione degli istoni, così da decifrare il DNA con cui sono in contatto. Eppure un pasto a base di cipolle e peperoni al forno è già un piatto tipico della ricca tradizione gastronomica siciliana. Ma il gusto non ci aiuta a fare l’associazione giusta così come non ci aiuta a misurare le calorie e la tossicità di un pasto. Basterebbe accendere i fornelli dei laboratori ristoceutici per migliorare la nostra dieta senza togliere piacere, colore e tradizione al cibo, bensì valorizzandolo con lo scambio di informazioni tra gli agrobioscienziati, i biotecnologi, i medici e gli chef a servizio di un nuovo concetto di ristorazione made in Italy.
Mi piace credere che la ristoceutica possa contribuire anche alla scoperta di nuovi gusti mentre sviluppa un pasto funzionale per accendere geni anche in preparazione a un’attività sportiva o a un intervento chirurgico. Non è un caso che al termine del libro si trovino delle ricette, veri progetti di ricerca che attendono solo di essere studiati.