Più passano i giorni, più i numeri dell’epidemia corrono veloci. Stargli dietro diventa difficile, così ci vuole poco per lasciarsi prendere dalla stanchezza e credere al primo dato che, distrattamente, si ascolta in televisione. L’attenzione di tutti, ora, ricade sulle terapie intensive. Ci sono? Non ci sono? Stanno per finire? Quante ne abbiamo a disposizione? Per rispondere esiste un solo modo: leggere i numeri. Quelli non mentono mai.
Con il bollettino odierno, l’incremento di pazienti ricoverati in terapia intensiva è di 127, cifra che porta il totale a 1.411.

Ad oggi, i posti disponibili in Italia sono poco meno di 7.000. Quindi, il totale dei letti occupati è del 20%. La soglia di allerta fissata dal Ministero della Salute è del 30%: sopra quella, il protocollo prevede che venga rallentata o addirittura fermata l’assistenza agli altri pazienti che finiscono nelle rianimazioni. Per raggiungere questo fatidico 30%, occorre che vengano occupati 2.100 posti letto.
Esiste tuttavia un possibile asso nella manica. L’Italia, grazie agli investimenti fatti per potenziare il sistema sanitario, ha a disposizione 4.609 ventilatori da aggiungere ai 5.179 presenti prima dell’avvento del Covid-19. Fino ad ora, di questi, ne sono stati utilizzati 1.781 e ne rimangono dunque altri 2.828.
Per attivarli, però, serve personale ed è qui che emerge il vero grande problema. La preoccupazione, infatti, non nasce per la scarsità di posti letto, ma per la mancanza di anestesisti, medici rianimatori e infermieri specializzati. Il calcolo viene fatto in questo modo: per attivare un posto letto in terapia intensiva, sono necessari un medico e 2/3 infermieri. Essendo 2.828 i ventilatori pronti ad essere utilizzati, occorrerebbero quasi 3 mila medici specializzati e circa 7 mila infermieri. Totale: 10.000 assunzioni.

Ottenerle in tempi brevi non sembra un’ipotesi possibile. Si è arrivati in ritardo e, dopo mesi in cui altro non si è fatto che aspettare inermi l’arrivo della seconda ondata, ora si paga l’inefficienza governativa di quest’estate. Per Alessandro Vergallo, presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani, un modo per sopperire parzialmente a questa mancanza sarebbe quello di “stabilizzare i precari che ancora ci sono e poi puntare sugli specializzandi, circa 1200 quelli al quarto e quinto anno, da assumere con procedure facili e contratti a tempo determinato e infine richiamare i pensionati per inviarli nelle rianimazioni non Covid”. Misure di emergenza, in pratica, che non possono trovare giustificazioni. Come se, dalla prima ondata, non si fosse imparato nulla.

A livello nazionale, la Lombardia è ancora la regione con più malati di coronavirus in terapia intensiva (271), seguita da Lazio (166) e Campania (140). Altro dato da tenere presente, di contro, è che del totale dei contagiati il 94% sia in isolamento domiciliare e, quindi, soltanto 6 persone su 100 siano costrette a recarsi in ospedale per essere curate. Il tasso di letalità è inferiore all’1% nei soggetti con meno di 50 anni, del 2,1% in quelli dai 50 ai 59, del 8,6% tra i 60 e i 69, del 23,3% tra i 70 e i 79, del 32,3 nella fascia 80-89 e del 32,3% in quella 90-99. In totale, sono decedute 36.233 persone risultate positive al tampone del coronavirus.
Il trend continua a crescere e i risultati del lockdown parziale cui l’Italia è sottoposta a partire da ieri, lunedì 26 ottobre, si vedranno tra 10/15 giorni. L’obiettivo dichiarato è il rallentamento (non l’appiattimento) della curva. Conte è ottimista, perché le misure “sono state adottate per questo”.
Non resta che attendere.