Nel 2016, al termine dei lavori della COP21 a Parigi, tra una cena di gala, un evento folkloristico e una foto di gruppo, i leader mondiali promisero che avrebbero fatto di tutto per non far aumentare le temperature medie globali oltre 1,5 gradi Celsius. Non da subito, però, ma dopo molti anni: il tempo di permettere ai paesi meno sviluppati di colmare il gap che li separava dai paesi sviluppati (quelli che hanno fatto danni forse irreparabili al pianeta) in termini di industrializzazione. E di inquinare il pianeta in modo spaventoso.
Sin da subito a molti (e noi tra loro…) questo obiettivo apparve limitato, anzi quasi inutile. E certamente insufficiente per risolvere i problemi di cui si era parlato durante gli incontri a Parigi.
Poco dopo fu il turno di Trump che, in un colpo solo, cancellò le promesse di Obama e fece un gran regalo alle multinazionali rinnegando il rapporto di causa ed effetto (confermato da centinaia di scienziati in tutto il mondo) tra aumento delle emissioni di CO2 e effetti antropici.
Tra COP invero blande in termini di impegni e risultati, governi che rinunciano ad ospitare la COP del 2019 e “seconde scelte” impossibilitate a causa della crisi in Cile (paese “supplente” per realizzare la COP nel 2019), si è arrivati alla fine del 2019 senza sapere quali saranno concretamente gli impegni dei paesi più potenti per salvare il pianeta. Si perché è questo il problema. Come ricorda l’UNEP, il 78% di tutte le emissioni, è causato dai paesi che fanno parte del G20. Eppure, finora, solo cinque di questi ha adottato norme che potrebbero permettere di raggiungere l’obiettivo “zero emissioni” entro il 2050.
Ma il tempo per salvare il pianeta è sempre di meno. Anzi, pare che la situazione stia peggiorando molto più velocemente del previsto. A lanciare l’allarme è un rapporto delle Nazioni Unite appena pubblicato. Anche se i paesi dovessero rispettare gli impegni assunti a Parigi e ridurre le emissioni di CO2, le temperature globali aumenterebbero mediamente di 3,2 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Più del doppio dell’aumento di 1,5 gradi promesso a Parigi (e mai mantenuto). Le conseguenze potrebbero essere devastanti. Secondo gli esperti che hanno scritto il rapporto, per ottenere qualche risultato le emissioni dovrebbero diminuire del 7,6 per cento ogni anno per i prossimi dieci anni.
Purtroppo pare che si stia andando in direzione opposta: secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, nel 2018, le emissioni di CO2 hanno raggiunto un nuovo record con 407,8 ppm (il cosiddetto “punto di non ritorno” era 400 ppm). E il tasso di crescita tra il 2017 e il 2018 è stato più alto della media degli ultimi dieci anni.
“La nostra incapacità collettiva di agire tempestivamente e duramente sui cambiamenti climatici significa che ora dobbiamo apportare profondi tagli alle emissioni”, ha detto Inger Andersen, direttore esecutivo dell’UNEP, che poi ha aggiunto:
“Abbiamo bisogno di risultati rapidi per ridurre il più possibile le emissioni nel 2020, quindi di contributi determinati a livello nazionale più forti per avviare le principali trasformazioni delle economie e delle società. Dobbiamo stare al passo con la tabella di marcia che ci eravamo dati”, ha aggiunto. “Se non lo facciamo, l’obiettivo di 1,5° C sarà fuori portata prima del 2030. Per contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi, gli stati devono triplicare i livelli degli obiettivi climatici previsti. Se invece si punta a +1,5 gradi, gli sforzi devono essere quintuplicati”.
Anche in Italia il clima è già cambiato. A dimostrarlo non sono solo le inondazioni dei giorni scorsi a Venezia, Matera e Pisa, ma una lista lunghissima di eventi meteorologici estremi che colpiscono la penisola con sempre maggiore frequenza. Piogge, trombe d’aria e ondate di calore si verificano con frequenza e intensità sempre crescenti e destinate ad aumentare. E ogni volta i danni sono sempre maggiori. Dal 2010 ad oggi, sulla mappa del rischio climatico, sono stati registrati 563 eventi di questo tipo, che hanno avuto effetti rilevanti in 350 comuni. Solo nel 2018, in Italia sono stati registrati 148 eventi estremi, che hanno causato danni alle persone (oltre 4.500 sfollati) e danni incalcolabili. Tra il 2014 e il 2018, in Italia, sono morte 68 persone solo a causa di inondazioni. E, come confermano i dati dell’Osservatorio meteorologico Milano Duomo, le temperature presentano già oggi un aumento di 1,5 gradi Celsius (a Milano) e una media nazionale delle aree urbane di +0,8 gradi tra il 2001 e il 2018 rispetto alla media del periodo 1971-2000. Non nel 2050: oggi (anzi ieri).
A fronte di un aumento repentino delle temperature medie, si registra un altro fenomeno rilevante: la carenza di acqua potabile: è vero che piove sempre più forte, ma nei bacini c’è sempre meno acqua e l’accesso all’acqua rischia di diventare sempre più difficile da gestire. Al Sud, come situazione generale, ma anche nei quattro principali bacini idrografici italiani (Po, Adige, Arno e Tevere) dove le portate medie annue hanno registrato una riduzione media complessiva del 39,6% rispetto alla media del trentennio 1981-2010.
Per contro, in molte città italiane, preoccupa non poco l’innalzamento del livello dei mari. Non solo a Venezia: secondo le elaborazioni dell’Enea, sarebbero 40 le aree a maggior rischio in Italia. Oltre a Venezia anche città come Trieste, Ravenna, la foce del Pescara, il golfo di Taranto, La Spezia, Cagliari, Oristano, Trapani, Marsala, Gioia Tauro….
I ricercatori di Climate Central pubblicata (i risultati della loro ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature), hanno detto che se i ghiacciai continueranno a sciogliersi al ritmo attuale, entro il 2050, 300 milioni di persone che vivono in aree costiere saranno sommerse dal mare almeno una volta l’anno. E le barriere fisiche costruite saranno inutili (anche se dovessero essere potenziate). E pensare che per costruire il MOSE che dovrebbe proteggere solo Venezia (e le altre città?) sono già stati spesi oltre 5 miliardi di Euro….
Dopo aver scorso questi dati che molti definirebbero apocalittici, la cosa più preoccupante è che molti paesi continuano a non volersi dotare di leggi e misure per fronteggiare questa situazione. In Italia, nel 2014, venne approvata la Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Ma non si può fare molto dato che manca ancora il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, lo strumento che consentirebbe di passare dal campo degli studi a uno strumento reale, di passare dalle parole ai fatti (il Rapporto Ecosistema Rischio di Legambiente conferma, ad esempio, che in molti comuni si continuano a realizzare “tombamenti” di corsi d’acqua e a dare il via libera a edificazioni in aree a rischio. E secondo i dati ISPRA, in Italia, dal 1998 al 2018, sarebbero stati spesi circa 5,6 miliardi di euro per opere di prevenzione del rischio idrogeologico, a fronte di circa 20 miliardi di euro spesi per “riparare” i danni del dissesto secondo dati del CNR e della Protezione civile).
Nonostante le promesse, le conferenze, le marce, gli scioperi (29 novembre è previsto il quarto Sciopero globale per il clima ), le starlette di turno (sempre più giovani e sempre più accalorate nei loro discorsi) e gli appelli della comunità scientifica, la strada intrapresa sembra diretta verso un netto peggioramento. Anche la Cina, che in un primo momento sembrava voler prendere il posto degli USA come paladino delle politiche per il cambiamento climatico, in realtà adotta politiche che vanno nella direzione opposta. Secondo uno studio di Global Energy Monitor, tra l’inizio del 2018 e il mese di giugno del 2019, la capacità delle centrali nel paese sarebbe incrementata di 43 GW. Un dato che dovrebbe far riflettere se si pensa che nello stesso periodo, nel resto del pianeta, il cambiamento è stato di “soli” 8,1 GW. Ma non basta: una parte consistente di questa energia sarà realizzata dalle centrali a carbone la cui costruzione è iniziata nell’ultimo lustro (e che certo non verranno chiuse a breve).
I cambiamenti climatici hanno ormai raggiunto dimensioni che vanno oltre quanto si dice nei normali media che spesso sono “influenzati” dai giusti influencer a colpi di miliardi: a denunciarlo è stata InfluenceMap che ha esaminato 15 organizzazioni collegate al settore petrolifero e del gas statunitense e ha scoperto che queste società avrebbero speso ben 17 milioni di dollari da maggio 2018 ad oggi per fornire informazioni poco attedibili sui cambiamenti climatici e sugli impatti che hanno i combustibili fossili sulla crisi climatica.
Cambiamenti climatici che ormai sono entrate a pieno titolo nella vita di tutti: al punto che il dizionario inglese Oxford ha attribuito a “emergenza climatica” il titolo di parola dell’anno 2019. La sua definizione sarebbe è “una situazione dove è necessaria un’azione urgente per ridurre i cambiamenti climatici ed evitare conseguenti danni ambientali potenzialmente irreversibili”.
E mentre i leader mondiali stanno ancora pensando a cosa mangiare durante la COP del 2020 che si terrà a Glasgow in Scozia, gli effetti geopolitici dei cambiamenti climatici in atto sono già sotto gli occhi di tutti (anche di quelli che fingono di non vederli): piogge violente, alluvioni, siccità e desertificazione degradano il suolo e strappano fette sempre più ampie di terreno nelle regioni più povere dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America latina. La conseguenza è l’aumento delle migrazioni, sia all’interno che oltre le frontiere dei singoli stati. Ormai non si parla più di rifugiati e nemmeno di migranti economici. Presto non sarà più possibile fingere di non sapere che i migranti sono sempre più migranti climatici. Ma di questo, la COP del 2019 forse non parlerà….