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Regeni: dove il dolore di pochi è cavalcato dal cinismo di molti

Il segreto come metodo: riflessione critica sull'iniziativa del quotidiano La Repubblica per "accertare la verità" sull'omicidio

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Regeni: dove il dolore di pochi è cavalcato dal cinismo di molti

La pagina nel sito di Repubblica che spiega l'iniziativa

Time: 4 mins read

L’omicidio di Giulio Regeni ha una matrice precisa: che è culturale, prima ancora di essere politica. E non è inedita, purtroppo; si può anzi far risalire, almeno, all’affacciarsi dell’Era Moderna, e del conflitto che ne costituisce l’essenza: quello fra l’individuo e il complesso statuale, fra la Libertà e l’Apparato.

In Egitto, lo sventurato ragazzo era andato per conoscere. Nella sua declinazione democratica e liberale, la conoscenza è intesa a conseguire una dimensione pubblica, quindi, politica; il suo opposto, dove si compendia quel conflitto, la negazione di una conoscenza pubblica, è esattamente la dimensione del “segreto”.

Scuserete questa premessa, ma spero valga a meglio introdurre le ragioni critiche, che mi pare debbano muoversi ad una iniziativa assunta da “Repubblica”, d’intesa con la Famiglia Regeni.

Da oggi sarà disponibile una piattaforma, denominata “Regenifiles”. Informa il quotidiano che è “una piattaforma dove chiunque, in modo anonimo e sicuro, potrà inviare informazioni o documenti utili all’accertamento della verità sull’omicidio di Giulio Regeni.

Duplice, l’origine di questa proposta.

In primo luogo, c’è il dolore, lo strazio, l’alta ispirazione ideale di una madre e di un padre che, in nome del figlio, intendono ricondurre, come possono, l’indicibile violenza di una perdita infinita, ad un pur minimo lenimento.

Scrivono, i genitori, ad illustrare, quella che è per loro mite e commovente ricerca: “La verità dopo un po’ non riesce più ad essere trattenuta e tracima”. C’è, in quel “tracima”, un’attesa scandita in ciascuno degli istanti in cui si è fin qui consumata: una speranza che silenzi altrui e speranze proprie abbiano un comune e concorrente sbocco, e si impongano ad ogni precedente ostacolo e impedimento.

Ma c’è, in secondo luogo, a fondamento di questa iniziativa, quella che si potrebbe definire, un’idea di mondo, di società, di uomo: che invece riverbera più cupi accenti, più studiate valutazioni: un’azione di tutoraggio e di promozione culturale, ambigua, opaca, pericolosa.

E questo ci pare il ruolo effettivamente assunto dal giornale, che mira a trarre dal sentimento un orientamento, dall’insidia multiforme del “segreto” una sua obliqua promozione.

Precisa “Repubblica” che si tratta di un software (“Globaleaks”) “già sperimentato dall’Autorità nazionale italiana anticorruzione (Anac), che ha utilizzato questa piattaforma per raccogliere le segnalazioni dei whistleblower in materia di anticorruzione”.

Il segreto come metodo: ecco la questione.

Non varrebbe obiettare che qui è buono lo scopo. Intanto, perché, come proprio il richiamo del precedente uso comprova, ogni fine è mutevole e, perciò, come si sa o si dovrebbe sapere, il mezzo, se può, deve potersi giustificare in sé, non in relazione al fine che lo accompagna.

Nè che le notizie sarebbero convogliate all’Autorità Giudiziaria, dato che, per essere utilizzate, dovrebbero poi svelare un’identità; né che si tratterebbe di acquisizioni assimilabili a quelle conseguite per via di indagini difensive, giacché queste richiedono diversi e cogenti requisiti, proprio imperniati sulla precisa e certa identificazione di fonte e contenuto dell’informazione.

C’è il rischio che da tale iniziativa gemmino implicazioni a più ampio raggio.

E’ di tutta evidenza, infatti, che le autorità egiziane, nei loro sfuggenti rapporti con quelle italiane, hanno agito (o non agito) su un piano politico, o di sovranità. Sicché, la scarsità di conoscenze sull’omicidio di Giulio Regeni, segna un fronte di inadempienze che è, fondamentalmente e non marginalmente, di ordine politico.

Ma pure la presentazione dell’anonimato, come nuova dimensione di cooperazione comunitaria è stata ed è politica; e, per il connesso ruolo dei media, culturale. Essa, insieme di attività normativa e di note, deliberate, suggestioni togato-tribunizie, si pone quale antecedente logico-emotivo di ogni invito alla “collaborazione anonima”: quasi un rinovellato titolo di cittadinanza, in cui ciascuno concorra ad una corale e “giusta” investigazione. China, se è ancora solo una china, di cui proprio gli anni battesimali dell’Età Moderna, hanno definito i caratteri.

In un Breve (un atto pontificio) del 1569, “Si de protegendis”, papa Pio V, dopo aver ammonito chiunque “impedisce li Santi Tribunali della Inquisitione”, astenendosi dal presentare “instromenti, processi, lettere”, conclude, esortativamente: “Et li denonciatori stiano sicuri che s’haverà di loro ogni protettione, et che saranno tenuti secretissimi”.

Pertanto, è questo il piano, complesso e storicamente stratificato, su cui cade anche questa iniziativa.

Superfluo rilevare quanta di questa “cultura” sia del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, del Presidente Giuseppe Conte: pur rimanendo gravati da doveri politico-diplomatici (comprese le leve economico-finanziarie) verso uno stato riottoso, ben più penetranti che non largire a beneficio di telecamera inconcludenti e ciniche rassicurazioni; e quanta sia del Partito Democratico, anch’esso sostenitore di quelle leggi sulla delazione anonima richiamate da “Repubblica” (“le segnalazioni dei whistleblower in materia di anticorruzione”), e quanta della Lega, votante la sua parte.

Superfluo rilevare a quale soglia di disperante regresso siamo perciò giunti. Quale tremenda contiguità corra fa ogni sorta di “culto del segreto”.

Sulle “battaglie culturali” si è giocato il corso del mondo, si sono avviate guerre, si sono alimentate distanze e incomprensioni fra i popoli. Il piano della cultura è quello da cui muove l’azione.

E non è la prima volta che il cinismo si fa schermo del genuino dolore. Né l’ultima. Ma dispiace come la prima.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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