E’ toccato anche a me. Nella notte fra il 28 e il 29 settembre scorsi, a Roma. Dopo una vita assai movimentata, con salti da un continente all’altro, emozioni forti sia in patria che all’estero, ansie che possono prendere chi non si chiude certo a riccio e s’identifica nei propri cari e nelle persone che gli sono altrettanto care; dopo una vita di sforzi agonistici gli ultimi dei quali sostenuti la primavera scorsa; dopo una vita “dissoluta” fra donne, fumo, alcol, e chi più ne ha più ne metta; ecco, la botta me la sono beccata anch’io e me la sono beccata quando (un classico, forse) meno me l’aspettavo. Non m’è arrivata su un campo da gioco: non me la sono buscata in una “battaglia” col Grenoble o col Cus Firenze, coi Cangrandi di Verona o coi Pirati di Livorno o durante una delle furiose litigate sul piano morale e professionale al giornale in cui ho lavorato dal 1988 al 2007: m’ha appunto preso di notte, nel sonno, nella camera di casa mia. M’ha svegliato un grosso fastidio allo sterno, poco dopo accompagnato da una certa pesantezza di stomaco. Ma paura non ne ho avuta: ho solo provato irritazione, stizza: se c’è una cosa che detesto, questa è l’interruzione del sonno. Mia moglie ha tuttavia chiamato la guardia medica, saranno state le due, due mezzo. E’ così arrivato il Dottor Mancini, giovane, disinvolto, assai preparato: un socievole, un medico che infonde fiducia. Il quale ha auscultato il battito del mio cuore e, alla fine, ha compilato il modulo per il mio ricovero all’ospedale “San Giovanni Calibita Fatebenefratelli”. Un’altra guardia medica, della quale qui non farò comunque il nome, m’aveva già visitato, visitato per modo di dire e diagnosticato “una gastrite”…
Bene: intorno alle sei e mezzo venivo accolto presso il pronto soccorso dell’ospedale e sottoposto immediatamente a elettrocardiogramma. Responso medico: ischemia. “La dobbiamo trattenere”!, m’ha quindi detto una dottoressa sulla cinquantina, piuttosto gentile, ma ferma e energica, s’intende. Ecco, all’età di 68 anni, venivo ricoverato per la prima volta in ospedale. Ma pensai che finora m’era andata anche fin troppo bene…!
Avevo appena avuto il tempo di rifare mente locale su quanto m’era accaduto, su dove mi trovavo, che, alle 11 di quel 29 mattina, venivo scarrozzato in ambulanza, a tutta velocità, all’ospedale San Camillo, Roma Ovest, Circonvallazione Gianicolense, per l’effettuazione della coronografia, intervento non praticato al Fatebenefratelli. Detto in parole povere, il “palloncino” fatto penetrare nel mio corpo a partire dal polso destro, ha trovato e presto riaperto l’arteria che s’era un po’ occlusa. Poco più d’una ora dopo, con guida alla “Bullit”, venivo riportato al Fatebenefratelli.
Il Fatebenefratelli sorge sull’Isola Tiberina, fra Trastevere e il Ghetto. L’Isola Tiberina certo non sarà imponente, grandiosa, come l’Ile-de-la-Citè a Parigi, ma è pur sempre un luogo parecchio suggestivo, ricco di arte, raccolto, piuttosto intimo, e legato alla Medicina fin da quando Esculapio venne portato a Roma per debellarvi la pestilenza nel III Secolo a.C,, se ben rammentiamo. La leggenda vuole che il dotto personaggio giunto dall’Ellade, debellò, sì, la pestilenza.
E’ dal 1583 che l’”Insula” accoglie l’ospedale Fatebenefratelli, fatto costruire da San Giovanni di Dio e da allora istituto di grande popolarità fra i romani, un istituto che è più d’un nosocomio: è una rassicurante presenza che svolge “anche” un ruolo sociale, spirituale. E’ una meraviglia dell’Architettura: è immenso, ma le sue linee sono ordinate, pure; le proporzioni fra finestre e facciate, impeccabili. All’interno i locali sono rifiniti in maniera esemplare: il Fatebenefratelli assomiglia a alberghi sul Garda o sul Lago di Como costruiti fra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento. Il luogo ti rialza il morale.
Io vi ho trascorso cinque giorni della mia vita.
Vi ho trovato medici chirurghi di provata esperienza, di vero talento, disposti al dialogo coi pazienti, ma senza scadere nella “familiarità” insincera, “democratica”, “casareccia”, che tutto altera e confonde i ruoli. Vi ho incontrato medici campioni di fermezza, ma pronti a ricorrere alla forza di persuasione. Dottoresse anch’esse ben preparate, in gran parte giovani, sicure di sé, smaglianti, provviste del leggero distacco in virtù del quale non si drammatizza, non s’alza la voce, non si fa la faccia feroce, non si terrorizza il paziente che già sta parecchio male e, angosciato, si domanda quanto gli toccherà restare in ospedale.
Vi ho incontrato infermiere e infermieri molti dei quali ne sanno “quasi” quanto un medico. Infermiere e infermieri dal rendimento costante, dall’umore che è sempre quello, nessuno sbalzo, nessuna smagliatura, mai un gesto d’impazienza o un atteggiamento di sufficienza. Infermieri e infermiere che ti puliscono senza batter ciglio il sedere, e te lo puliscono bene, visto che ti è toccato andar di corpo servendoti della”padella” poiché l’ordine, giusto e tasstivo, era che per nessuna ragione tu t’alzassi dal letto… Sarà così anche in tutti gli altri ospedali del mondo, ma constatarlo di persona fa un gran bell’effetto.
La terapia. Impeccabile la terapia, nonostante il naturale avvicendamento fra medici e fra infermieri e infermiere: neanche un intoppo, un’incertezza nel passaggio delle consegne. Mi sono sempre state somministrate le medicine che mi dovevano essere somministrate, varie pasticche al giorno e le une diverse dalle altre nella girandola, appunto, del personale infermieristico. Nei miei cinque giorni sull’Isola Tiberina mi sono stati praticati tre elettrocardiogramma al giorno; non conto neanche le volte in cui mi è stato prelevato il sangue, misurata la temperatura, misurata la pressione sanguigna, ispezionate perfino le orecchie. Due le iniezioni sulla pancia con sostanza anti-coagulante. E trovavi sempre un sorriso, sempre un conforto, una voce amica.
Mi sono sentito assistito. Mi sono sentito tutelato. Capivo che le mie sorti stavano parecchio a cuore a medici e infermieri, e questo con tutto il grosso volume di lavoro che gli uni e gli altri erano chiamati a svolgere. Non ero un “semplice paziente” da rimandare a casa al più presto possibile per far posto ad altri malati, o uno su cui si dovesse intervenire con l’accanimento terapeutico. Sentivo d’essere nelle mani di persone intelligenti! Intelligenti, esperte, coscienziose: gente di grande valore umano, non solo professionale, quindi. Non ho incontrato nessun dottore, nessun infermiere che avessero voglia di tagliar corto, di tirar dritto. L’atmosfera era rilassata, ma frizzante in certi momenti, grazie, appunto, alla carica umana di medici e paramedici. A un dottore o a un infermiere, chiedevi una spiegazione e la spiegazione arrivava pronta, succita, certo, eppur esauriente, e fornita sempre col sorriso sulle labbra.
Che cosa non smuove in te l’ospedale… Dovendo osservare riposo assoluto per via delle mie condizioni, già al secondo giorno di degenza invidiavo gli esseri umani in grado di camminare…! Poter camminare mi sembrava un dono, un privilegio! Sì, l’uso delle gambe che funziona, che non ti tradisce… Meraviglioso, certo, potersi reggere in modo sciolto sulle proprie gambe.
Malasanità in Italia? Se ne parla da almeno trenta o quarant’anni, da dopo il 1970 di sicuro. Ma al Fatebenefratelli, di Malasanità non ho visto nemmeno l’ombra.
Sono stato dimesso alle 14.00 di venerdì 3 ottobre, sotto il cielo azzurro, Ottobrata Romana! S’è fatto festa con infermiere e infermieri per la mia uscita dall’ospedale. Festa, sì, al Fatebenefratelli, dove credo che la mia vita sia stata salvata.