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September 4, 2014
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Facebook e lo scaldabagno: ovvero quando la furbizia annulla la creatività

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Mark Zuckerberg, co-fondatore e Ceo di Facebook

Mark Zuckerberg, co-fondatore e Ceo di Facebook

Time: 4 mins read

 

È quando ti si rompe lo scaldabagno prima del lungo weekend di Labor Day e devi cavartela senz’acqua calda per quattro giorni e mezzo, ripulirti a pezzi anche dopo aver giocato a calcio, lavare a mano piatti e pentole, accumulare biancheria senza poter fare una lavatrice, è allora, dicevo, che ti accorgi che le grandi invenzioni, quelle che realmente hanno cambiato la vita della gente, sono tutte di quel secolo magico, fra metà ottocento e metà novecento. Lo scaldabagno a gas, nel 1894. Non a caso, un periodo di grandi movimenti sociali, di straordinari entusiasmi e speranze, di impegno. 

Dopo di allora, man mano che quella spinta si esauriva e i furbi e gli stronzi riprendevano il controllo delle istituzioni e delle imprese, a essere inventate sono state per lo più cose sostanzialmente superflue, incluso il computer con cui sto scrivendo questo post e internet che mi permette di pubblicarlo, che se tutti domani smettessero di usarli la nostra vita non cambierebbe affatto, anzi, vuoi mettere la soddisfazione di ricominciare a litigare con impiegati in carne e ossa invece che soggiacere agli aut-aut di una pagina web. Ma altroché se cambierebbe, la qualità delle nostre vite, se non potessimo più farci una bella doccia bollente appena alzati, accendere la luce la sera e il riscaldamento d’inverno, o ascoltare la radio, guardare un film al cinema o in televisione, prendere l’autobus o il treno. 

Invece vogliono farci credere che il mondo di oggi sia geniale, creativo. Che il capitalismo finanziario e globalista che ha vinto la guerra fredda e liquidato, almeno per ora, i sogni di emancipazione e di eguaglianza, sia un motore di perenne innovazione. Che le sue nuove tecnologie portino felicità e benessere, come se sul serio uno smartphone con lo schermo tattile renda migliore chi ce l’ha. Solo perché la gente, rincoglionita dalla pubblicità, si compra qualsiasi cosa le propongano nell’illusione che renda la sua esistenza più facile o piacevole, per poi trovarsi soffocata da una burocrazia ancora più invasiva e intransigente, quella elettronica, che non dorme mai, mai va in vacanza e se sbagli a digitare un solo carattere o non ti ricordi l’ennesima ID, si rifiuta di proseguire. Altro che Kafka. A vantaggio di chi? Di pochi avidi speculatori determinati a realizzare in pochi anni profitti osceni, a spese di tutti gli altri. È l’ideologia del libero mercato: nessuna regola se non il successo, che a posteriori legittima e consacra qualunque azione. Come a poker o alla roulette: chi vince aveva ragione già da prima.

Non ci sono più politici, solo leader; non più imprenditori, solo super-manager; non più intellettuali, solo celebrity. Ma dietro questi anglicismi non c’è nessuna vera qualità: dimenticando le tradizioni e ignorando l’etica, il liberismo ha mandato al potere la più squallida e inetta classe dirigente che la storia ricordi, uomini (e qualche donna) senza qualità. Mediocri perché non hanno davvero dovuto lottare, rinnovarsi, creare; soprattutto non hanno dovuto continuare a farlo. Gli basta un’intuizione capitata al momento giusto, spesso da giovani; e poi grazie al copyright, a qualche trucco fiscale e a regimi di semi-monopolio, non solo vivono di rendita, che sarebbe accettabile: diventano dèi. Per cui smettono di cercare, di pensare, di mettersi in discussione, di svolgere una proficua funzione sociale. Si chiudono anzi un una bolla di assurdo privilegio, molto più ermetica della corte interna della Città Proibita. 

Quello che ha inventato lo scaldabagno, Hugo Junkers, pochi anni dopo era passato ad altro e divenne il padre dell’industria aeronautica tedesca. Era anche un pacifista e un socialista, espropriato delle sue compagnie e dei suoi numerosi brevetti dai nazisti. Qualcuno mi spieghi cosa ha fatto Mark Zuckerberg, se non occupare prima degli altri un settore che tanti stavano provando a sviluppare? E soprattutto, cosa ha fatto Zuckerberg dopo aver regalato (si fa per dire) Facebook al mondo? Assolutamente niente, se non dare un’insignificante frazione dei suoi profitti in beneficienza e appoggiare il governatore repubblicano del New Jersey, l’arrogante e reazionario Chris Christie. 

Siamo allora sicuri che una singola idea, buona quanto vi pare ma una sola (e neppure realizzata da lui stesso: il programma se lo fece scrivere da altri), valga 33 miliardi di dollari, più del PIL annuale della Giordania, della Bolivia o del Camerun? In un mondo normale, Zuckerberg sarebbe diventato ricco, abbastanza da non dover più lavorare, se non gli andava. Non sarebbe stato sufficiente? Il resto se lo sarebbe preso lo stato, la collettività: chi ha un patrimonio di 33 miliardi di dollari, 32,9 miliardi dovrebbe essere obbligato a versarli in tasse. E quello che gli resterebbe sarebbe comunque cento o duecento volte di più di quello che io avrò guadagnato in tutta la mia vita. 

Se il capitalismo fosse nato insieme alle prime civiltà, invece che in un periodo storicamente molto recente, sarebbero stati brevettati e privatizzati anche il fuoco, la ruota, le scarpe, l’agricoltura. Ci sarebbero due classi di persone: i discendenti di quegli originari inventori (anzi, di coloro che per primi si erano attribuiti quelle invenzioni), che possederebbero tutti i beni, e gli altri, che non avrebbero niente. Una situazione non molto diversa da quella che si sta sviluppando oggi (la multinazionale Monsanto sta cercando di acquisire il copyright di semi che esistono da milioni di anni). Ma ci sarebbe una differenza. Di progresso ce ne sarebbe stato molto di meno. Non credete alla favola che l’avidità e l’egoismo stimolino l’ingegno. Lo indirizzano verso obiettivi più vantaggiosi e lucrosi. Il capitalismo non sta solo distruggendo il pianeta e dissolvendo le nostre comunità e tradizioni: sta annientando anche le più alte qualità umane, quelle che principalmente ci distinguono dalle bestie: la creatività e l’immaginazione, necessariamente libere, non finalizzate a un immediato profitto.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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