Ho letto con interesse ieri l'intervento dell'On. Fucsia FitzGeral Nissoli pubblicato su La VOCE di New York. Ecco qui due tre cose che so della ricerca.
Il 25 febbraio 2013 poco prima delle elezioni il gruppo 2003 per la ricerca mise in rete dieci domande (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/diamo-futuro-alla-ricerca-scientifica-italiana-0) in cui si chiedeva a coloro che erano candidati di dare una risposta. Pochi furono i candidati politici che risposero e nessuno fu in grado di tracciare uno sviluppo della società italiana basata sulla ricerca. Ricordo tra l’altro che l’Italia nel trattato di Lisbona aveva pure sottoscritto un accordo per cui avrebbe investito entro il 2010 il 3% per la ricerca scientifica (ora siamo al 1.13%).
Le analisi economiche e statistiche mostrano che Ricerca e Sviluppo (R&S) rappresenta circa un terzo della spesa per l’innovazione nelle imprese italiane. Molte di queste innovano senza ricerca, acquistando tecnologia incorporata nei macchinari e nei prodotti intermedi o tecnologia mediante l’acquisto di know-how.
Un recente studio mostra che, l’impatto socio-economico dei progetti di ricerca finanziati dal MIUR, sia da attribuire al progetto di ricerca stesso per il 43% e per più del 50% ad altri attori (aziende 30%; istituzioni pubbliche locali 6%; istituzioni pubbliche nazionali 13%; sistema finanziario 3%; altri attori 5%).
Questo sottolinea che il risultato del lavoro di ricerca possa avere un impatto sociale ed economico soltanto a condizione che venga inserito in un più ampio contesto che vede come attori individui e organizzazioni diverse dall’università.
Studi condotti in aziende degli Stati Uniti mostrano che tra l’emergere di un nuovo campo di ricerca nella comunità accademica e l’incremento della produttività economica passano circa 20 anni, e che l’11% delle innovazioni di prodotto e il 9% di quelle di processo sarebbero state significativamente ritardate in assenza della ricerca.
I dati ISTAT della spesa per Ricerca e Sviluppo dell’università per il 2008 mostrano le seguenti percentuali: ricerca di base 56,6%, ricerca applicata 33,5%, sviluppo sperimentale 8,7%. I dati per l’industria sono strutturalmente opposti; 8,7%, 47,2%, 44,0%. In termini assoluti, la spesa per Ricerca e Sviluppo dell’Università era all’incirca di 6.1 miliardi di euro, ora un po’ di meno, pari al 31,6% della spesa totale nazionale (gli enti pubblici contribuivano per il 12,5% e le imprese per il 52,7%).
Nel rapporto OCSE del 2013 sull’Università, l’Italia è purtroppo sempre relegata negli ultimi posti: (http://www.roars.it/online/education-at-a-glance-2013-cosa-dice-locse-delluniversita-italiana/) spesa per università (% di PIL), 30-esima su 33; tagli all’istruzione (% di PIL), 29 esima su 30; spesa per l’istruzione in termini di % sulla spesa pubblica, ultima su 33; rapporto studenti-docenti, 21 esima su 26; spesa cumulativa per studente, 14 esima su 24; età dei laureati sotto la media europea e così via. Poi quando si va a vedere, quanto incidono le tasse universitarie siamo terzi in Europa.
Detto, questo è possibile fare qualcosa per rivalutare la ricerca e per far sì che questa abbia un impatto positivo sull’apparato produttivo? Evidentemente sì, ma prima dobbiamo chiederci quali sono le vocazioni della società italiana e che tipo di società vogliamo? E’ un progetto culturale che non è mai stato fatto. Forse dopo il dopoguerra di fronte all’emergenza di ricostruire, ma mai recentemente. Il tessuto industriale italiano è ormai dominato dalla struttura medio-piccola che da sola non è in grado di fare ricerca, quindi il primo passo sarebbe di fare degli accordi tra consorzi industriali ed enti di ricerca e università per fare assieme ricerca nei settori emergenti e innovativi. Si era tentato con i distretti ma gli interessi di parte avevano prevalso, ancor oggi abbiamo distretti che fanno le stesse cose. In una fase di crisi come quella in cui siamo, bisogna razionalizzare, e la spesa per la ricerca va contestualmente razionalizzata e aumentata sulla base dei criteri dell’accordo di Lisbona. E’ un grosso lavoro che richiede stabilità politica e un impegno economico rilevante, ma, o si fa ora, oppure diventa difficile che il paese si riprenda nei tempi medi, soprattutto di fronte all’impegno economico per la ricerca che hanno profuso i paesi che vanno sotto l’acronimo BRICS. Bisogna uscire dalla genericità e lavorare per un progetto culturale aggregante che sia basato in primis sul rilancio della scuola, a tutti i gradi e livelli, come motore di una società moderna.