Sono in tanti a vaticinare che potrebbe essere il futuro Pontefice. Vero il detto: “Si entra Papi, si esce Cardinali”, ma non c’è dubbio che il neo-presidente della Conferenza Episcopale Italiana Matteo Zuppi le carte in regola le abbia: è in ottima sintonia con l’attuale papa Francesco; è popolare e viene dal “basso”; ha una visione che richiama insieme la bonomia di Giovanni XXIII e la solidità di Giovanni Paolo II, è italiano (e dopo tre pontefici stranieri, non guasta), ma grazie ai saldissimi legami con la comunità di Sant’Egidio il suo sguardo va ben al di là del colonnato vaticano.
Buon eloquio e carisma…insomma, le qualità, sulla carta, per salire sul soglio di Pietro ci son tutte. È utile dunque scandagliarne il pensiero per quello che riguarda il carcere, i detenuti e le questioni ad essi connesse.
L’analisi del cardinale Zuppi può essere così sintetizzata: “Umanità e carcere possono e devono andare d’accordo senza alcun compromesso. Anzi l’una aiuta l’altro in modo vicendevole”. Così si esprime, in occasione della presentazione del libro sulla figura di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, ucciso nel 1981 dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo.
Già da queste parole si comprende l’orientamento pastorale che guiderà l’azione e il pensiero del president dei vescovi italiani sul mondo penitenziario.
Per Zuppi le “carceri dove non c’è niente, ma solo reclusione e contenimento, fanno uscire le persone peggiori di come ne sono entrate”. Se è vero che devono cambiare le persone, è altrettanto vero che devono cambiare gli istituti penitenziari: “Le carceri cambiano se intorno ad essi c’è una società civile sveglia. E tanto spesso è il mondo intorno che permette al carcere di migliorare”.

Il volontariato e il lavoro rappresentano quei cardini fondamentali sui cui si deve innestare un processo di cambiamento. Ci sono degli esempi virtuosi di aziende che all’interno delle carceri fanno lavorare i detenuti, creando manufatti artigianali, prodotti dolciari e quanto altro. Realtà che devono moltiplicarsi e che possono scandire un altro ritmo alla vita quotidiana di chi è recluso e soprattutto insegnare un mestiere da spendere una volta usciti.
E poi i volontari, coloro che ascoltano i drammi e le speranze di chi ha commesso errori e li sostengono nei momenti difficili senza giudicarli. La loro presenza può rappresentare quella mano amica che può suscitare il desiderio di compiere percorsi di cambiamento e di riscatto sociale.
Zuppi non risparmia critiche alla classe politica, che rimprovera d’essere indifferente per questo mondo marginale che interessa a pochi: “Viviamo un giustizialismo da imbecilli, per cui si mette dentro qualcuno e si butta via la chiave pensando di risolvere così i problemi della sicurezza. E questo è pericoloso per tutti perché così dal carcere si esce peggiori”.
Ci si deve piuttosto interrogare sulla trasformazione delle logiche delle mafie; comprendere i tratti delle connivenze, acquisire consapevolezza sui nuovi metodi con cui agiscono i clan mafiosi, e cosi’ individuare gli strumenti per combatterli.
Giustizia riparativa, funzione rieducativa della pena, trattamento più umano anche per criminali del calibro di Cutolo sono le domande aperte su cui Zuppi e la sua idea di Chiesa si interrogano; lasciano presagire una stagione di impegno e di slancio verso quel mondo che papa Francesco vede sempre e comunque come persone.
Referendum per una giustizia più giusta. Ancora qualche giorno e ognuno di noi potrà, recandosi alle urne, con un semplice SÌ eliminare leggi e norme che rendono l’amministrazione della nostra giustizia meno giusta, più iniqua, più corporativa, non al servizio del popolo come dovrebbe essere, e ci riducono tutti, nessuno escluso, anche i fautori del NO, dei sudditi e non dei cittadini.

Naturalmente non si tratta della panacea di tutti i mali: è l’inizio di un percorso. Se prevarranno i NO, o se i referendum verranno invalidati per mancanza di quorum, sarà un’occasione persa, ma l’impegno continua. Se vinceranno i SÌ, dopo i primi cinque minuti di legittima soddisfazione, deve essere chiaro che ci si dovrà di nuovo rimboccare le maniche e difendere il conquistato, e puntare su altri non meno importanti obiettivi.
È la condanna del riformatore: conquistare ogni giorno un metro verso la giusta direzione, con la consapevolezza che la meta è sempre lontana e non esiste il tutto e subito. Una lunga marcia che richiede forza, fantasia, pazienza, costanza, prudenza, intelligenza e duttilità.
Merita qui d’essere segnalato un testo del 1972 di Mario La Cava, uno scrittore che con Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Fortunato Seminara, Saverio Strati e Francesco Perri è tra i più rappresentativi e originali che la Calabria ci ha regalato. Meriterebbe di essere ricordato più di quanto accade. Molto amico di Leonardo Sciascia, anche La Cava era uno spirito libero, con grande autonomia di pensiero.
Il testo si chiama “Il giudice iniquo”, che assieme ad altri scritti è pubblicato nel volume “I miei maffiosi”, Hacca editore. È datato 1972. Cinquant’anni dopo non c’è da mutare una virgola. Non lo posso leggere tutto. Mi limito a qualche stralcio:
“Il giudice iniquo non dovrebbe esistere…per la contraddittorietà dei suoi termini. Se è giudice, e se il suo simbolo è la bilancia, come si vede bene nella carta bollata con la quale si stendono le sentenze, non sarebbe possibile pensare in modi diversi le stesse cose. Avendo i suoi bracci eguali e i pesi costanti, la bilancia darebbe sempre lo stesso risultato…
È un’opinione diffusa quella dell’equilibrio dei giudici, che è diventato un luogo comune parlare delle “luminose tradizioni dell’ordine giudiziario”, cioè della loro attitudine a ben giudicare, in questo o quel paese. L’indipendenza di essi sarebbe un “costume peculiare” molto frequente, specialmente nei tempi andati. La loro apoliticità sarebbe un “dovere sempre assai sentito” verso lo Stato e i cittadini tanto è vero che, senza scomporsi, starebbero a loro agio tanto in un regime, quanto nel suo contrario…

Al di fuori di tale disquisizione teorica, resta però il fatto che la condanna talvolta è ingiusta o ingiusta la via che porta ad essa. Se il risultato è stato iniquo, iniquo sarà stato il suo autore: il giudice, nell’accezione comune della parola…
Il giudice è un uomo: ha i suoi interessi privati, le sue preferenze sentimentali, le sue ideologie, più o meno avvertite, il suo acume, la sua dottrina, la sua ignoranza, la sua bontà, la sua malignità: perché deve offendersi se qualcuno gli rinfaccia i suoi errori? …Si credono davvero infallibili? “C’è la loro buona fede”, mi si potrebbe obiettare. Non basta la buona fede, per essere infallibili. Dalla presunta infallibilità nasce l’orgoglio mostruoso, che potrebbe fare vittime innocenti. Oserei dire che accade quotidianamente…
Sono cose che i giudici intelligenti conoscono, e di esse nutrono la loro malinconia; quelli meno intelligenti o meno umani le accettano come dati di fatto, insuperabili. Traggono motivo per abbandonarsi al dispetto malevolo, all’indifferenza astiosa…
Occorre puntare sulla preparazione più accurata dei giudici, non solo dal lato della tecnica giuridica, ma anche da quello degli studi umanistici in genere. Forse gli esami di concorso dovrebbero volgere anche su altri agomenti che non siano quelli delle leggi. Il popolo italiano paga bene i suoi giudici. È giusto che si aspetti da essi meno errori che siano possibili e soprattutto meno deviazioni tentatrici nella ricerca sostanziale della verità”.
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