Ai tanti tradizionalisti di ruolo e di complemento che si è visto criticare Francesco per la sua “apertura” sulle unioni civili, talora in modo scomposto, non è forse male ricordare il triangolo ermeneutico aureo del cristianesimo. Triangolo costruito sulla Parola, sulla coscienza cui la Parola si rivolge, e che può accoglierla o meno, e sulla tradizione, cioè sulla storia di questa accoglienza che si fa comunità e istituzione, Chiesa. Ed è costruito in quest’ordine: all’inizio c’è l’iniziativa di Dio, la Parola; poi l’ascolto e l’accoglienza di questa iniziativa nella libertà della coscienza di ognuno; infine la sua comunicazione agli altri che si fa invito ad ascoltarla ed accoglierla in proprio e insieme tradizione della custodia – storica – di questo deposito vivente della fede.
È storia della Chiesa che quando i cuori si sono induriti («Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», Lc 18,8), è sempre venuto qualcuno ad ascoltare la Parola leggendola senza gli occhiali fumé di una tradizione inerte, che non è più della parola viva trasmissione storica, ma sua inertizzazione fossile, incapace di parlare ai cuori disponibili del proprio tempo: l’eternità della Parola è virtualità storica non monolite di un’Idea platonica. E questi che sono venuti, sono quelli che la tradizione l’hanno “fatta”, cioè insieme modificata e stabilita. Francesco è uno di questi.

Sulla pastorale della sessualità si è tolti gli occhiali fumé. Ha letto nei cuori cui da sempre vuole leggere la Parola, perché quei cuori, quei corpi, quelle carni la Parola li ha creati, così come “sono”, per amarli come li ha “fatti”, e non per buttarli via come pezzi di scarto della lavorazione dell’umano. E leggendoli, vi ha trovato una domanda: «Chi sono io per giudicarti?». Con le sue parole: «Che importa che tu sia gay? Dio ti ha fatto così e ti ama in questo modo».
Con la sua “apertura”, Francesco non fa che portare a chiarezza il magistero dell’Amoris Laetitia. Facendolo, certamente mette in crisi il catechismo – che è un prodotto storico, ha una data di stampa in tipografia e non nei cieli – della Chiesa cattolica. Il catechismo della Chiesa cattolica dice che le persone omosessuali «devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza». E già il lessico del compatire la dice lunga sul sottinteso di un “diversamente umano” con cui si avrebbe a che fare. Ma di più: in che si traduce la soluzione pastorale, fondamentalmente impietosa, di questo assunto, alla quale arriva il Catechismo? Che gli omosessuali sono invitati «a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (art. 2358). E «sono chiamati alla castità» (art. 2359).
Benevolmente si ammette che gli omosessuali non sono peccatori per la loro condizione, ma solo a patto che non la vivano! È come dire a una pianta che può crescere ma non può fiorire! Se no (come i separati che vivono in “perpetuo adulterio” col nuovo compagno) dovrebbero essere tenuti lontano dai sacramenti, perché il loro posto è all’inferno del castigo esistenziale qui; in fondo una “prova” che è poca cosa rispetto alla dannazione eterna dell’al di là.

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Ma si ha diritto ad imporre a chi non ne ha vocazione, e quindi non lo sceglie liberamente come i religiosi, il celibato? Ha ragione Francesco, o una tradizione che si fa pietra tombale della speranza e della carità? Sotto l’eternità della Parola cade l’ascolto che ci restituisce Francesco o una malintesa autorità della tradizione? A chi si rivolgerebbe oggi il rimprovero di Gesù ai capi religiosi: «legate fardelli pesanti e difficili da portare e li ponete sulle spalle della gente, ma voi non volete muoverli neppure con un dito!» (Mt 23,4)? A Francesco, o a chi lo contesta?
La domanda ovviamente è per quel che mi riguarda puramente retorica. E a tanti zelanti della tradizione, che per difenderla in modo ossificato si affidano alla “natura” umana, anche un breve ripasso su questo concetto non farebbe male.
L’omosessualità è una condizione “naturale”, nel senso di una deviazione standard (ed uso il termine deviazione in senso puramente statistico, non in senso morale!) dall’espressione eterosessuale sul piano del desiderio, della sessualità umana; altrettanto naturale dell’espressione standard della naturale eterosessualità umana. Ne discende, per chi crede che la natura umana sia creazione di Dio, che anche questa condizione “particolare” (nel senso che ne è una parte e parte) della natura umana, è creazione divina. E che quindi non c’è condizione naturale (ivi inclusa l’omosessualità) dell’espressione della sessualità umana che non abbia titolo ad essere riconosciuta, e promossa a una vita ordinata dell’affettività che vi si lega, nella societas cristiana. Per cui lo scandalo non è ammettere la liceità morale delle unioni civili, lo scandalo è non riconoscerne le ragioni umane. A saperla ascoltare oggi la Parola non sbarra la strada alla protezione giuridica del vincolo affettivo omosessuale, perché il “peccato” – per chi ovviamente alla pastorale che da quella Parola discende si attenga – non è la convivenza omosessuale ma la vita disordinata della sessualità, così come assunto per il vincolo eterosessuale.