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in Religioni
June 30, 2017
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Islam e alcool, i Paesi del Medio Oriente verso il proibizionismo?

Sempre più governi tentano di dimostrare la propria ortodossia rimandando indietro le lancette riguardo la libertà di bere

James HansenbyJames Hansen
Islam e alcool, i Paesi del Medio Oriente verso il proibizionismo?
Time: 2 mins read

È passato il Ramadan, il mese islamico in cui il digiuno dall’alba al tramonto dal mangiare, bere, fumare o fare sesso dovrebbe ricordare ai fedeli che il piacere è tentatore e che farne a meno è un dono ad Allah: “L’alito cattivo che promana dalla bocca di colui che sta digiunando è migliore davanti a Dio del profumo del muschio”, da Detti e fatti del Profeta di al-Nawawî (1234 – 1278). Un’altra proibizione islamica, più permanente, è quella contro l’alcool: “Col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah e dall’orazione. Ve ne asterrete?” (Sacro Corano, Sura al-Ma’ida, 5:91). L’Ayatollah Seyyed Musavi Lari scrive: “La voce del Profeta non si era ancora spenta, che i musulmani incominciarono ad astenersi per sempre dal bere”. Però, si sa com’è, qualche fedele si è poi lasciato tentare da un bicchierino, specialmente quando veniva in contatto con l’inquinamento morale Occidentale. Parecchi paesi islamici moderati avevano rilassato il divieto, anche perché si era notato come i turisti evitavano quei posti che obbligavano a bere la limonata con il pesce.

Ora, con l’ondata di “purificazione” che sta travolgendo l’Islam – di cui l’Occidente vede principalmente l’aspetto terroristico – molti degli stessi governi tentano di dimostrare la propria ortodossia rimandando all’indietro le lancette riguardo al bere. A fine aprile il Governatorato di Antalya, la grande stazione balneare turca, ha vietato il consumo di alcolici nei parchi, sulle spiagge e nei campeggi, nelle aree picnic, nei siti storici, nelle piazze e, in generale, “in pubblico”. Per fugare ogni dubbio il divieto si estende esplicitamente anche a “strutture abbandonate o in costruzione, ai cimiteri, alle cabine Bancomat, alle trombe delle scale e sotto i ponti”. A maggio, la Polizia Turistica egiziana ha improvvisamente obbligato la chiusura di tutti i locali notturni, bar e negozi di liquori del paese alla vigilia della Notte di Mid-Sha’ban (una festa che richiede il digiuno ai fedeli islamici). Gli alberghi per gli stranieri hanno chiuso i bar ma hanno fornito il servizio in camera – spronando la stampa egiziana a chiedersi da una parte perché il divieto si applicherebbe solo agli egiziani e dall’altra per quale logica riguarderebbe solo certe feste e non tutto l’anno.

Nel Kurdistan iracheno, dove la vendita di alcolici si sospende per il Ramadan, la vigilia quest’anno ha visto una massiccia corsa all’accaparramento. Al-Monitor ha intervistato un poliziotto mentre faceva la sua scorta (tre casse di birra e due bottiglie di arrak). Ha spiegato: “Compro ora perché è troppo una seccatura andare dai contrabbandieri durante il mese di digiuno”. Un commerciante ha detto: “I negozi di liquori restavano aperti durante il Ramadan fino al 2009. Prima ci chiedevano solo di coprire la porta con un drappo”. Attribuisce il cambiamento a “populisti e predicatori”. Per ben oltre un millennio l’Islam è riuscito a tenere il tappo nella bottiglia, ma da mezzo secolo vino, birra e liquori scorrono e – visto lo scarso entusiasmo delle popolazioni investite dall’ondata retrograda – non è detto che si riesca a tornare indietro. Quando gli Usa ci hanno provato negli anni Venti del secolo scorso, hanno generato il più grande boom di gangsterismo che il mondo abbia mai visto.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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