A colpi di campagne potenti e ispirate, l’agenzia newyorkese Droga5 sta accompagnando il brand Under Armour nell’olimpo dei brand più rispettati.
Negli ultimi anni la fama di Baltimora non è stata certo aiutata dai fatti di cronaca nera e dai disordini razziali che l’hanno tristemente catapultata tra le più pericolose metropoli d’America, precisamente al secondo posto dopo Detroit. Ma Baltimora è anche una città che vanta molte cose buone: ad esempio la rispettabilissima scena musicale, con gruppi di semi-culto come Beach House, Future Islands, Animal Collective, Lower Dens. Ed è la città di Under Armour, brand sportivo nato nel 1996 per volontà di un atleta che, stufo di cambiarsi in continuazione le magliette sudate in allenamento, arrivò a progettarne una capace di mantenersi asciutta e traspirante. Oggi Under Armour è uno dei brand più conosciuti in America, e non solo tra quelli sportivi.
Uno dei segreti della sua popolarità sono certamente le grandi campagne pubblicitarie ideate da Droga5, e gli atleti fenomenali che le interpretano. Il penultimo è stato Michael Phelps, in una campagna pre-Olimpica che ha portato fortuna un po’ a tutti.
L’ultimissimo interprete dello spirito di questa marca tutto sommato ancora giovane, è Cam Newton, quarterback dei Carolina Panthers, e atleta dai numerosi record personali. Nella campagna uscita in questi giorni lo vediamo passare letteralmente attraverso gli alberi, e quasi demolire una foresta accompagnato nella sua corsa dalla voce narrante della madre, che declama un racconto di Richard Adams del 1972, intitolato Watership Down. Il racconto parla della corsa di alcuni conigli, ostacolati lungo il tragitto da diversi imprevisti e pericoli. Lo stile è sempre quello: toni scuri, quasi cupi, e l’epicità sportiva come chiave di salvezza e di fuga dall’ordinario. In qualche modo la corsa tra gli alberi di Cam ricorda l’attraversamento delle pareti di un vecchio celebre spot Levi’s, a proposito di campagne che costruiscono brand.
Il lavoro fatto negli ultimi anni dall’agenzia newyorkese su questo marchio è stato a dir poco straordinario. Utilizzando ogni tipo di mezzo digitale o catodico, Droga 5 ha fatto scendere Under Armour nella stessa arena in cui giocavano nomi come Nike, Adidas, Puma, Reebok, catapultando il brand di Baltimora in cima ai desideri degli sportivi e, poi a un certo punto, delle sportive. Un esempio da manuale di come la grande comunicazione possa aiutare le aziende a diventare universali e aspirazionali. E a spartirsi una bella fetta del mercato, se è vero che il fatturato nel 2015 già superava i due miliardi di dollari. Era quello che predicava il grande pubblicitario Bill Bernbach, in un sua massima valida ieri come oggi: “Good advertising builds sales. Great advertising builds industries.”
La bella storia pubblicitaria di Under Armour inizia nel 2003. Nella campagna viene coniata la frase “We must protect this house”, diventata talmente importante da entrare nell’ uso comune in tutti gli stadi americani, come un mantra. Il passo successivo è il claim “I will”, parente non troppo lontano, ma molto più volenteroso, del “Just do it” di Nike. Una promessa quasi Obamiana, attestato di volontà che corre lungo tutta la storia di questo brand “ex-minore”. E’ la competizione del brand povero, l’underdog, il perdente, contro il cugino ricco e vincente. In una svolta fortunata all’inizio del decennio Under Armour diventa il marchio di riferimento per lo sport apparel femminile. Connubio celebrato da un’altra epica campagna. Quella con Giselle Bundchen, la supermodel brasiliana che si allena in palestra tirando pugni, circondata da frasi twittate in tempo reale dai veri utenti. Alcuni erano anche insulti, più che mai benvenuti per fare audience.
Come in tutte le campagne di Under Armour, è l’autenticità il semplice ingrediente segreto. Specialmente i più giovani hanno delle resistenze ad accettare spot staccati dalla realtà, indicano le ricerche di settore. Siamo lontani solo qualche anno dagli spot con i mostri e le visioni da video game che la Nike realizzava per una generazione che forse aveva più voglia di supereroi che di eroi.
Ma oggi la nuova America corre, si allena, soffre e in qualche caso vince su un terreno molto più duro che in passato: quello della vita vera, della realtà non sempre incoraggiante, e di un futuro da prendere a spallate.
Anche se non avremo mai l’armatura di Cam Newton, ciò che conta è quello che abbiamo sotto. Under Armour significa esattamente questo.