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April 28, 2015
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Emigranti 2.0: Addio per sempre? di Enzo Riboni

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 6 mins read

“Conoscere, scoprire, relazionarsi con un mondo che gli è stato servito global fin da giovanissimi.” Queste, tra le tante, sono le parole di Enzo Riboni, che descrivono i cosiddetti “cervelli in fuga”, espressione criticabile come ho già scritto. Enzo Riboni è giornalista del Corriere della Sera, dove tiene una rubrica dedicata proprio ai “Giovani all’estero”. Recentemente ha pubblicato un interessantissimo libro Addio per sempre? 101 storie di giovani all’estero, edito per IDE – Italic Digital Editions (versione cartacea 9,90 Euro, quella ebook 2,99 Euro). La prefazione è del sociologo Domenico De Masi. Ne abbiamo discusso cercando di sciogliere alcuni dubbi, perché il tema, di per sé, li pone fortemente. Andarsene o restare? O, per usare le parole, di due bravi documentaristi, Gustav Hofer e Luca Ragazzi, Italy love it or leave it. Non solo riflessioni, ma il racconto delle esperienze, in grado di darci risposte più certe.

Sono gli emigranti 2.0, la Generazione Y, oppure i Nativi digitali, o ancora i digitali globalizzati, incoraggiati da mamme lungimiranti e concordi nel far partire i propri figli. Potrà essere un “addio”, un “arrivederci”, un “a presto” o un semplice “ciao” all’Italia, sta di fatto che questi ragazzi hanno come orizzonte il mondo. E l’Italia? Mi è parsa come un libro sul “comodino”, da sfogliare la sera prima di addormentarsi, per imparare a sognarla nuovamente. La realtà è altra cosa.

Addio per sempre? è un libro che racconta le storie di 101 ragazzi che se ne sono andati dall’Italia. Alla fine della lettura forse un punto esclamativo avrebbe raccontato meglio quanto descritto?

No, ho voluto far prevalere la speranza sul pessimismo, la possibilità sulla definitività. È vero che leggendo le vicende di questi ragazzi non se ne trae un quadro confortante riguardo alla probabilità di rientro in Italia. Nel libro infatti parto dalle storie pubblicate nella mia rubrica quindicinale sul Corriere Della Sera “Giovani all’estero” dal 2008 al 2015, ma dò una continuità intervistando nuovamente i protagonisti e aggiornando così tutte le situazioni fino al dicembre scorso. Ebbene, su 101, solo 9 ragazzi sono rientrati in Italia e di questi solo la metà perché ha trovato qui da noi un’interessante proposta lavorativa. Nonostante ciò molti giovani nei loro commenti sostengono di continuare a mantenere la speranza di poter rientrare in Italia dopo aver acquisito una sufficiente esperienza internazionale. Sta al nostro Paese trovare le vie per rilanciare l’occupazione qualificata e diventare polo di attrazione per i nostri expatriate e per i “cervelli” stranieri.

Chi sono i ragazzi di cui si parla?

L’autore del libro “Addio per sempre?” Enzo Riboni

Sono tutti laureati, spesso con master e dottorati in prestigiose università estere e hanno una marcia in più rispetto alla media in forza di volontà e impegno per riuscire. Rappresentano quindi un campione di espatriati molto particolare rispetto ai dati AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero) che riguardano la totalità degli emigrati. Per farne un breve identikit: il 54% è composto da donne, un altrettanto 54% viene dal Nord Italia (28% dal Sud, 18% dal Centro); solo il 35% di loro si è trasferito in un paese europeo (contro il 64% AIRE); la classifica dei Paesi vede in testa gli USA con il 19% (la metà a New York), seguiti dal 15% dell’Asia (8 su 10 in Cina), l’8% della Svizzera, il 5% dell’Oceania, il 2% della Francia e il 2% della Germania (in testa invece dopo l’UK nei dati AIRE). Ciò significa che i giovani di questo campione stanno puntando su Paesi più lontani i quali, pur comportando situazioni difficoltose e sfidanti, appaiono loro come potenzialmente più in grado di offrire chance di successo e di rapida carriera.

Questi ragazzi sono un’élite certamente, ma è giusto definire coloro che non partono, semplicemente come bamboccioni e mammoni? Parlando con molti ragazzi universitari stranieri in Italia mi è sembrato che vedessero così i propri colleghi italiani. Dall'altra parte i ragazzi italiani erano un po' risentiti per quello che consideravano uno stereotipo…

Concordo sul definirlo uno stereotipo. Qui non si tratta di mammoni e bamboccioni. L’atteggiamento dei giovani italiani è molto cambiato a partire dall’inizio della crisi nel 2008. Fino a pochi anni prima nessuno si voleva muovere, non dico all’estero, ma addirittura rifiutando posti di lavoro nella città o nella provincia vicina. Ora la maggior parte dei giovani si dichiara disponibile a trasferirsi all’estero per studio o lavoro. Persino l’atteggiamento delle mamme italiane è cambiato da “chiocce” a “global”. Secondo un’indagine della Business School della Luiss, condotta su un campione di più di 11mila mamme con figli da 0 a 6 anni, l’80% ritiene che sia importante studiare e lavorare all’estero e il 93% si sentirebbe in colpa a trattenere in Italia un figlio deciso ad espatriare. Il problema è che non tutte le famiglie si possono sobbarcare gli oneri per far studiare o far trasferire all’estero un figlio per lavoro. Quindi non bamboccioni, ma limitati a muoversi dalle condizioni economiche e con solo i superbravi che possono contare su borse di studio sufficientemente generose.

Perché c’è la necessità di partire? È quasi un fatto esclusivamente economico, di prospettive professionali o c’è qualcos’altro?

copertinaLe ragioni per partire sono sostanzialmente sei: maggiori opportunità di lavoro, più stabilità (secondo Almalaurea a un anno dalla laurea solo il 34% dei giovani che lavorano in Italia ha un impiego fisso, mentre il neolaureato italiano all’estero è stabile nel 48% dei casi), più retribuzione (sempre secondo dati Almalaurea, a un anno dalla laurea, la retribuzione in Italia è pari a 1.003 euro netti al mese, all’estero 1.550), più meritocrazia, più carriera e più mobilità (all’estero più facile muoversi per lavoro estero su estero). Comunque molti dei giovani del mio campione sono espatriati anche per seguire una loro voglia di conoscere, scoprire, relazionarsi con un mondo che gli è stato servito global fin da giovanissimi.

Come percepiscono l’Italia questi ragazzi? Prevale la rabbia, il senso di colpa, l’indifferenza, il desiderio di fare la cosa giusta?

Il loro atteggiamento non è di disprezzo o di rifiuto verso il paese d’origine, è invece molto pragmatico e realistico. “Allo stato attuale non ci sono le condizioni per ritornare”, “In Italia non mi offrirebbero le chance di carriera e le retribuzioni che oggi ottengo qui”, “In Italia non c’è meritocrazia, qui invece chi vale avanza, senza favoritismi e raccomandazioni”. Sono solo alcune delle risposte che si ottengono quando si chiede loro cosa pensino dell’eventualità del ritorno a casa. Eppure molti vorrebbero tornare se solo l’Italia desse qualche garanzia in più e diventasse almeno un po’ concorrenziale con l’offerta estera. Come ci ricorda la nostalgica conclusione di uno di loro che oggi vive e lavora a New York: “Ammetto che mi piacerebbe tornare in Italia, perché mi mancano famiglia, amici e … il mio cane, ma per quanto mi riguarda i tempi non sono ancora maturi”.

Ci può riassumere le storie newyorkesi? Sono vincenti, deludenti, felici?

C’è l’ex funzionario commerciale della Indesit, con tanto di MBA che si stanca, fa un corso di sommelier e trova un’ottima occasione per vendere vini italiani nella Grande Mela. C’è chi ha trovato lavoro nella comunicazione finanziaria e chi nei centri di ricerca del colosso AT&T. C’è la ragazza che lavora in una prestigiosa galleria d’arte e l’altra che opera nei backstage di grandi musical e c’è persino la giovanissima che lavora nella segreteria di Woody Allen. Nel complesso sono tutti felici della loro scelta, si sentono ben inseriti e ben accettati in quel crogiolo multietnico. Per ora nessuno ha in programma di tornare.

Cosa si sentirebbe di augurare a tutti coloro di cui ha scritto?

Un’esperienza molto ricca in qualunque luogo del globo si trovino ora e di non perdere mai la voglia di mettersi in gioco con sfide sempre più “avventurose”. Ma anche di non trascurare la prospettiva Italia puntando, dopo un congruo numero di anni, sulla ricerca di occasioni di lavoro italiane all’altezza delle capacità acquisite.

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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