Fashionology è un incrocio di spazio e tempo che guarda alla moda, alla storia, alla cultura e le arti con uno sguardo critico e trasversale. Fashionology significa anche riflettere sulle trasformazioni e contaminazioni del presente in un contesto multimediale e interdisciplinare. In tal senso le parole e le immagini si incontrano, si scontrano, dialogano.
Apparire e vestirsi in pubblico, sentirsi a proprio agio in un determinato spazio sociale, contesto e tempo, far sì che il vestito abiti il corpo, sono gesti e atti personali e pubblici determinati da scelte. Scelte che possono essere dettate da una profonda conoscenza delle regole del gioco oppure da una confusa idea di sé. Le scelte e le selezioni che operiamo nella vita per le varie performance, non sono mai neutrali, ma sono segnate dai nostri valori, dal reddito, gusto e orientamento politico, che sia questo anche politica dello stile. Si pensi per esempio, a quanto fondamentale sia l’immagine di un leader politico, specialmente durante la campagna elettorale. Similmente, se volessimo offrire un esempio del passato, di cruciale importanza era il modo in cui gli ambasciatori italiani nel Cinquecento si vestivano durante le missioni diplomatiche all’estero e in altri ambienti connotati politicamente come le corti e le cerimonie pubbliche. La lista di simili eventi sarebbe semplicemente infinita anche nella nostra blogosfera. Nella nostra società attuale estremamente frammentata in mondi, spazi virtuali e non, lo studio degli abiti, della moda e della cultura materiale può collegare tali spazi o semplicemente metterli in comunicazione, in contiguità. Questa intercomunicazione multimediale rivela a sua volta molti aspetti del mondo e di storie individuali e collettive che altrimenti non verrebbero allo scoperto.
Quali valori e connotazioni assumono gli abiti nei processi di negoziazione di identità nello spazio pubblico? Con gli abiti gli individui e le collettività possono da un lato definire la loro appartenenza e dall’altro possono rimodellare i confini loro assegnati, e trasformare il loro ruolo sociale. Capire tali processi e seguirli potrebbero garantire una più stretta relazione tra quelli che Gramsci aveva definito “ Intellettuali organici “ e le masse.
Possiamo definirli produttori culturali? Certamente. Una delle sezioni dei quaderni del carcere tratta argomenti legati alla funzone della cultura, del senso comune, come una doxa o quello che Bourdieau aveva chiamato habitus. Questi sono concetti chiave per capire la moda che, da un lato, struttura i modelli imitativi e, dall’ altro, manifesta il crogiuolo della cultura e i movimenti politici. Anzi, attraverso le dimensioni incrociate della fashionologia possiamo avvicinarci alle pieghe nascoste della storia. Per comprendere, dunque, fenomeni popolari e manifestazioni di arte e di cultura sono necessarie lenti critiche e attente. Gramsci non parla specificatamente di moda ma parla di processi di modellizzazione del mondo, delle sue ideologie e delle strategie di costruzione del consenso.
Ecco il passo in cui Gramsci, nel descrivere il rapporto che l’ intellettuale di tipo nuovo deve avere con le masse, usa una forte metafora sartoriale:
Lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento della massa, ciò che significa di lavorare e suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le “stecche” del busto. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il “panorama ideologico” di un’epoca.
Un approccio critico alla moda come un complesso sistema che va dalla produzione al consumo, con tutto il suo capitale simbolico sollecitato dalla cultura dei media, diviene la chiave per una più ampia comprensione delle trasformazioni sociali, la loro storia di esclusione, uniformità e differenza. Non è forse questo un altro modo di studiare la storia? Con una sfida e con una certa “piega”. Infatti riprendendo un comune detto, questa, sarebbe una storia che fa una piega, guardando alla materialità di ciò che apparentemente potrebbe sembrare effimero e transitorio.
Se come ha scritto David Harvey “hope is the memory that desires”(Harvey: 2003), potremmo operare e interagire con una temporalità multipla che integra passato, presente e futuro in un rapporto sinergico. Pensare e sperare che le arti e la cultura pur andando al passo con il presente, non perdano di vista il lungo cammino che ci sta alle spalle. Un cammino che nel suo dispiegarsi si apre ad immagini e gesti del passato. Riappropriandocene, ci consente di continuare il viaggio con una rinnovata coscienza e ci spinge verso un continuo divenire. Poroso e aperto al pensiero creativo, critico, all’azione.
Gli articoli che seguiranno sono volti a cogliere la provocazione del presente con una definizione della moda non solo riferibile ai vestiti, ma a tutto quello che c’è prima, intorno, e al viaggio che questi oggetti fanno in mondi virtuali e reali. Quali percorsi raccontano, quali mani e idee li hanno prodotti, come vanno a dialogare con le tradizioni e aprire percorsi nuovi.