Bei tempi quelli del “Bianco o rosso?”. “Fermo o frizzante?”. Qualcuno lo dice ancora, in qualche trattoria alla buona, ma ormai la moda dei vini sta dilagando a vista d’occhio.
Ci sono le “Vie del Vino”, “I percorsi delle uve”. Tutte le città e i paesi improvvisamente producono nettare degli Dei. Anche a Manhattan è esplosa la mania del vino buono, allora via con la Napa Valley e coi vicini sudafricani che costano (alcuni) un botto. A tavola poi facciamo paura. Tra poco assaggeremo con espressione concentrata anche l’acqua minerale e, dopo una lunga pausa, diremo: “Va bene!”, così finalmente gli altri potranno bere perché stavano morendo di sete nell’attesa.
In molti ristoranti ormai c’è la carta dei vini. Ma se nella compagnia c’è qualcuno che la chiede allora sei fritto. Quello è “l’esperto di vini”. Nessuno sa perché ma ormai lo chiamano così e nessuno può mai più ordinare un vino di sua iniziativa. L’”esperto” resterà curvo sulla lista per ore con tutto il tavolo sospeso in un febbrile stand-by. Nessuno respira più, nessuno parla. Anche il cameriere sta lì in piedi come in un fermo-immagine. Finalmente l’esperto ordina. Di solito una bottiglia che non c’è. “Mi dispiace, l’abbiamo terminata”, dice il cameriere. E lì si ricomincia a scorrere l’elenco, come un professore che deve interrogare. “Chardonnay di Jermann del 94!”. “Presente”. Sospirone. C’è! Meno male. E il tavolo si rilassa, anche perchè da mezzora tutti si sarebbero fatti volentieri un normalissimo bicchierozzo d’entrata, una cosina semplice insomma.
“Chi assaggia?”, fa il cameriere quando torna con la bottiglia. A questo punto tutte le dita puntano verso l’esperto, come a volersi sbarazzare di una responsabilità pesantissima. “Lui!”. A questo punto se l’esperto è veramente un’esperto e ha fatto un corso di sommeliers eseguirà tutta la gestualità del caso. Se è un “cioccapiatti” invece (come il più delle volte è) si cominciano a vedere dei movimenti rotatori del bicchiere, delle smorfie della bocca a culo di gallina e a sentire degli schiocchi agghiaccianti del palato.
Poi c’è l’attesa del responso. Gli altri del tavolo hanno già su due marroni spaziali. Novanta volte su cento al “cioccapiatti” non piace quel vino perché deve far vedere che se ne intende. Di solito dice una roba che non sta né in cielo né in terra tipo: “Si sente troppo il profumo delle bronze delle galline della Carnia”. O “C’è un buon retrogusto di cioccolato ma si sente che la botte è stata portata lì da un’Ape senza ammortizzatori e quindi è stata sballottata troppo”. Si entra quindi in un gorgo pericolosissimo che può portare anche a sei o sette bottiglie mandate indietro. Si sono viste tavolate smobilitare senza mangiare perché a un certo punto si erano fatte le 11, la cucina aveva chiuso e non si era ancora venuti a capo della questione del vino.
Le donne poi di solito sono imbestialite perché del vino non gliene frega quasi niente, come del jazz come dice Paolo Conte in una sua canzone. Quindi debbono sopportare discussioni di ore sul tal vino “in purezza” (adesso si usa molto). Se poi l’”esperto” e il ristoratore si trovano in sintonia si mettono subito d’accordo per andare insieme in vacanza in Borgogna.
Va molto di moda lo Chardonnay, come per i cani il Jack Russel. Si va a momenti. Una volta c’era il Cocker e adesso non se ne vedono più, come sono rare le Albana che furoreggiavano nelle osterie anni 70. Poi ci sono anche i lestofanti, come dappertutto. Mettono del Tavernello dentro a una bottiglia di Tignanello d’annata, la ritappano e la fanno assaggiare all’”esperto”. Spesso finisce con lui che annuisce sorridente.
E tutti bevono felici finché uno, né esperto né cioccapiatti, ma cittadino normale, a un certo punto dice: “Par me fa schifo, è veleno!”. E tutti ridono. Compreso l’”esperto” e “il cioccapiatti”. Perché alla fine si vogliono poi bene.