Non ce la possiamo fare. Nei bagni dei locali, bar o ristoranti che dir si voglia, subiamo lo smacco tecnologico del millennio. È lì che l’essere umano capisce di essere indietro come i meloni (modo di dire emiliano).
Abbiamo imparato a usare i computer, a capire cos’è il Wi-Fi, ad aggiornare un iPhone, a configurare la posta elettronica, ad allegare robe impossibili alle mail, ma nei bagni pubblici no, siamo rimasti a zero. Stiamo ore lì davanti a un lavandino, in stato catatonico senza capire come sgorgherà l’acqua. E molto spesso usciamo, per tornare davanti al caffè con gli amici, dove già ci hanno dato per dispersi, senza essere riusciti a lavarci le mani, tristi, con espressione mogia e rassegnata, vergognandoci di chiedere aiuto al proprietario o ai camerieri.
Un popolo di mani non lavate continua la propria vita in silenzio e in mestizia. Per fortuna ci sono i sanificatori che salvano la situazione, col loro spruzzino che va sempre storto, altrimenti buio pesto. Una volta si andava in bagno, si apriva un rubinetto e l’acqua veniva giù festante. Oggi quei rubinetti non esistono più, sono scomparsi, i lavandini sono fatti solo di un beccuccio dove dovrebbe scendere l’acqua, ma la cosa succede raramente.

Sono stati inventati marchingegni sofisticatissimi, difficilissimi da violare, come se il lavandino custodisse un segreto da spionaggio internazionale. Ho visto una sera, prima della pandemia, un signore al ristorante tornare dal bagno e sedersi nella tavola a fianco con uno degli amici che gli ha detto: “È stata dura eh? Sono venti minuti che sei via, sei stato male?”. E lui guardando nel vuoto e scuotendo la testa: “Non ce l’ho fatta, troppo difficile”. L’amico è poi partito in avanscoperta per andare a controllare e non si è più visto. Gli altri hanno chiesto il conto, hanno pagato e sono andati via. L’hanno trovato al mattino le donne delle pulizie che dormiva abbracciato a un water.
Nei bagni si incontra sempre più spesso gente ferma davanti ai lavandini che si china, guarda sotto, o sta fissa come in catalessi. Bei tempi quelli del pedale. Una volta si premeva il pedalino e veniva giù l’acqua. In realtà ci sono ancora in certi bagni e bisogna stare in quella posizione plastica con la gambina tesa in avanti e il busto piegato per portare le mani sotto al getto. Come certe statue greche dei giochi olimpici. Poi sono arrivate le cellule fotoelettriche in cui bisogna mettere le mani sotto al beccuccio e magicamente l’acqua scorre. Illusione.
Due volte su tre non viene giù una minchia di niente. Si sta lì con le mani a conchetta come dei beoti. Gli altri tuoi “colleghi” di bagno intanto sono anche loro nella stessa posizione. Ogni tanto ci si guarda. E ci si fa un sorrisino appena accennato, di complicità. Ormai la tecnologia dei bagni ci ha asfaltati. Ci sono bagni dove non c’è più la catena e nemmeno più i pulsanti per tirare giù l’acqua (che spesso bisogna trovarli perché li piazzano nella parete opposta, oppure in alto, inarrivabili o dietro a una porta nella stanza d’entrata).

Ci sono bagni in cui l’acqua parte se sai la parola d’ordine. “L’alba è sempre rosa” e allora va. Certi lavandini vanno salutati: “Ciao”, e funzionano. Ma bisogna saperlo. A volte bisogna passare veloce con la mano aperta a bassa quota sotto al beccuccio facendo il rumore di aereo. “Gniaaaaao!”, e va.
Una volta ho visto un tizio disperato che non riusciva a far uscire l’acqua e le provava tutte, una mano, un piede, delle botte pazzesche sul becco. Era grande e grosso e ormai aveva le lacrime agli occhi, anche perché aveva appena cambiato una gomma del camion e aveva le mani completamente nere. Alla fine, sulla porta del bagno, ha urlato all’indirizzo del lavandino: “Stronzo!”. Bè, d’incanto l’acqua ha cominciato a uscire. Era la parola d’ordine. Lui è tornato indietro. E si è lavato le mani.