Sono poche le persone per cui ho sempre tempo e anzi fermano il mio tempo. Sono le persone che mi ricollegano al cielo, al mare e all’eterno e sanno trasformare la vita in attimi del divino. Diego è una di queste persone, per me e milioni di altre amanti del genio, dell’arte e del pallone ribelle.
Non me l’aspettavo, non ero preparato alla sua morte, come per quella di chiunque credi immortale. Non ci credevo e mentre scrivo in effetti non ci credo.

Avevo un impegno ma ho stoppato tutto e adesso, in silenzio, rivedo e riascolto tutto il nastro che conosco di Diego e tutte le emozioni che mi ha dato. So già qual è la più grande, che credo abbia donato a chiunque amasse il pallone e abbia calpestato e respirato cemento e terra, pioggia ed erba bucata pur di correre e crescere dietro a un gol: “Sì, si può fare”. È questa la più grande magia di Diego, mostrarti che si può essere unici, palleggiare con la vita, dire ciò che pensi, che quasi sempre è dall’altra parte, da quella degli indiani, contro i grandi, contro chi ha già vinto il campionato perché ha soldi, management, sponsor e una rosa illimitata di combattenti. Si può gareggiare contro i grandi, come Davide contro Golia, piccoli ma veloci, geniali e imprevedibili, segnando persino con la mano, ma subito dopo dribblando mezza squadra, mettendola al tappeto, portiere compreso, e firmare il gol più bello di tutta la storia del calcio. Si può fare, vincendo col pallone contro chi è stato potenza coloniale e ti ha battuto sempre con le solite armi.
È questa la lezione di Diego: lui l’ha fatto col pallone per dirci che si può fare con una penna, con una firma, con un no, con mille allenamenti.
La nazionale argentina che vinse il Mondiale in Messico del 1986, e la famosa partita con l’Inghilterra, era una squadra “operaia”. A parte i talenti di Valdano e Burruchaga era una formazione costruita dal coach Bilardo sul duro lavoro e sul grande sacrificio che chiedeva ai suoi per supportare lui, Diego, “El Pibe de Oro”, così amato dagli dei, come nella tragedia greca, al punto da commuovere Giove stesso, che infatti gli offrì la “Mano di Dio” proprio in quella partita. Per commozione, ma forse anche per vendetta, come accadeva appunto agli dei “umani” delle tragedie greche.
Ecco, Diego è tanto altro, ma certamente la sequenza più vista al mondo di Maradona (come questa su YouTube) è proprio quella dei due goal all’Inghilterra, mano e piede, sregolatezza e genio. E il gol più stravisto è il secondo, quello di piede, del genio.
Perché tutto questo ci piace? Perché a Diego si perdona tutto e perché lo si mette sempre e comunque “fuori classe”, fuori ogni classifica, numero uno e numero 10? Perché?
Perché Diego appartiene al cielo e alla terra. Fa parte di quei pochissimi dei umani che nascono e vivono per davvero, che hai visto con i tuoi occhi e che puoi raccontare. Povero come i più poveri, sognatore come i più semplici, ribelle come chi ha avuto fame, fortissimo ma vulnerabile come Achille, vincitore per poche notti che non finiscono mai, le notti di tutti quelli che non vincono mai.
Due sono i colori di Diego, dal rosso del furore iniziale dell’Argentinos Juniors e poi anche delle strisce grana del Barcellona alle sfumature di blu-azzurro: della sua Argentina, delle altre strisce del Barcellona, del Napoli e ora, di diritto e per sempre, del cielo.
Non è un caso quest’azzurro, è la sua origine, la sua casa, il suo campo: il cielo su cui dribblare nuvole e diavoli.
Immagino adesso il tutto esaurito lassù, questa volta senza bagarini. Festa speciale, stadio Eden aperto a paradiso e inferno. Maradona non conosce vie di mezzo, niente purgatorio: per l’occasione tutti si distribuiscono o di qua o di là.
C’è posto per tutti, napoletani e argentini di ogni generazione in prima fila. All’arrivo il grande annuncio allo stadio: “Signore e Signori, Diego Armando….”
Non finisce neanche la presentazione che Diego esce dagli spogliatoi fra il boato dell’Eden, chiamato anche Eden di San Paolo, entra in campo in perfetta forma fisica con un pallone fra le mani, proprio come fece a Napoli al suo arrivo. Un saluto con la mano, un sorriso e poi… alè, col sinistro comincia a palleggiare, piede, spalla, testa, tacco, testa, coscia, esterno, su, tiro in porta sulla traversa, ritorno e stop di petto, e ancora sinistro…
La palla non si stacca, il tempo passa senza tempo, lassù non c’è cronometro e finalmente arrivano le squadre. Non c’è dato sapere chi sono i compagni di Diego né tanto meno gli avversari. Sappiamo solo che nessuna tv al mondo ha i diritti per questa partita spettacolare e che Diego è felice come quando era bambino, che non smette di dribblare, segnare, divertirsi e divertire.
I campioni esistono e fanno la storia, poi ci sono le leggende, che rendono epica la storia.
Nel calcio di leggende ce ne sono solo due, Pelè e Maradona, Padre e Figlio. E non esiste dolore più grande del padre che vedere andare via il figlio prima di lui. Mi chiedo cosa prova oggi Pelè, felice dei suoi 80 anni, proprio mentre suo figlio ne compiva 60. Insuperabile leggenda dai mille gol, il padre sa riconoscere l’insuperabile dna del figlio con cui ha giocato più volte a rubarsi la coppa del re. Vado su Instagram di Pelè e leggo ciò che immaginavo: “…il mondo perde una leggenda. …Un giorno spero che potremo giocare a palla insieme nel cielo.”

A proposito di padri e figli, mentre scrivo e riavvolgo il nastro mi fermo su Napoli e il suo blues mediterraneo.
Questa rubrica si chiama Coaching & Blues perché vuole imparare dalla resilienza tipica del Mediterraneo e del sud del mondo per allenare ad essere oggi cittadini, donne e uomini migliori.
Il blues non è solo musica ma è quella nota stonata che re-intona tutto il senso della nostra vita, quella voce interiore che ci fa prendere decisioni, posizioni, cambiare idea o lavoro, dialogo o buongiorno a chi ci sta attorno. Con Diego se ne va l’ultimo personaggio della trinità napoletana del secolo scorso che ho amato dal profondo dell’anima e che ho considerato, e tuttora considero, il libro sempre aperto da sfogliare con gioia, rivedere, riascoltare, ri-ammirare. Se n’è andato prima e assai prematuramente il padre, Massimo Troisi, che col verbo ci sapeva fare e che con gentilezza ed ironia ha scolpito le parole nel cuore, giocando fino all’impossibile proprio con il suo di cuore, fino a farlo fermare, nutrendolo di smorfie irresistibili e burlesche, per ribaltare il significato stesso di quelle parole. Poi è stata la volta dello spirito, Pino Daniele, il mio prezioso maestro di musica e chitarra. Anche lui ha giocato troppo col suo battito e cantava “Non mi fido del mio cuore, perché so già che soffrirò…”. Spirito libero come la musica, si diffonde nell’aria da Napoli a New York con il linguaggio del blues e anche lui riscatta la vita e le notti di chi sa che si vive di “allerìa” e che “passa il tempo…. ma tu non cresci mai…”. Pino mi ha lasciato note semplici, accordi difficili e musica immensa, a lui dedicherò il mio 2021, proprio nel segno dell'”allerìa”.
Teatro, musica e calcio, arte straordinaria estremamente raffinata e popolare, una triade universale.
Oggi se va anche Diego, il figlio, anche lui prematuramente. E se il figlio è carne, Diego più di tutti ha incarnato il sogno. Questo ci lasciano in eredità i figli umani degli dei: non sono perfetti, anzi sono turbolenti, eterni adolescenti, ribelli e capricciosi. Fuori e dentro il campo, eccessivi e protagonisti ovunque, da Napoli a Cuba, dagli stadi alla politica.
Diego Maradona è un po’ come Marilyn Monroe, sempre sotto la luce del palco e al bivio col fato. Ha rischiato più volte di morire per eccessi di vita e droga, più volte si è rialzato, adesso è un’icona, o meglio un’immagine che non smette di correre e tirare in porta. Si diranno tante cose di e su Diego, dei trionfi e degli eccessi. Ma una cosa rimane: Maradona è e sarà in eterno amato dalla gente di tutto il mondo, perché i suoi eccessi si perdonano in quanto umani, i suoi gol si ammirano in quanto divini. E di gol in gol Diego ha portato due volte lo scudetto a Napoli e la coppa del mondo in Argentina.
Resta il nastro del guerriero che vince la sua rivoluzione contro i cattivi, con le sole armi della libertà e fantasia. E per fortuna ognuno di noi può riportare indietro il nastro e riguardarlo ogni volta che vuole, anche rallentando e fermando ogni attimo. Di gol ce ne sono tantissimi, alcuni veramente impossibili anche solo a pensarli. E ci raccontano che non possiamo essere Maradona, ma che tutti noi possiamo segnare un gol come Diego. Sta a noi scegliere se di tacco, di testa, di piede, da fermi o in tuffo. Evitiamo la mano, che è un regalo di Dio, e alleniamoci a fare il nostro gol. Io di sinistro sono scarso, ma col destro sento che posso ancora mirare all’incrocio.
Grazie infinite Diego, soprattutto per avermi mostrato cosa vuol dire 10.