Metà settembre, ormai un mese fa.
Ho finalmente 3 giorni di vacanza, in quest’estate così anomala non ho potuto staccare e ho fatto soltanto 4 bagni, pur vivendo in Sicilia.
Chiamo Roberto De Caro, il mio istruttore di subacquea che negli ultimi anni mi ha portato ad un livello più avanzato, nonostante il pochissimo tempo che riesco a dedicare.
“Emilio, ti dico la verità: il tempo non promette bene, rischi di venire a vuoto”.
Ma io ho troppa voglia di mare, mi manca il mio monte Cofano, la sua posa da gigante buono che dormicchia guardando il cielo, disteso sullo spettacolare tramonto del mare di Macari, proprio dietro San Vito Lo Capo (Trapani).
Effettivamente la prima uscita è un po’ “mossa”, la barca “si annàca” (ancheggia) troppo e noi abbiamo appena il tempo di scendere alla grotta dei gamberi e risalire per testare i miei consumi e poi di corsa verso il porticciolo, per evitare onde e nausee peggiori.
L’indomani niente da fare, tempesta.
Per fortuna il cielo esiste e il paradiso pure. Il sabato mattina, ultimo mio giorno di vacanza, il cielo è amico e il tempo una favola. Una di quelle giornate in cui pensi che la Sicilia è femmina e sa sedurti come nessuna donna al mondo.
Ci prepariamo ad uscire, il mare è trasparente, siamo in 5 più Virginia, la moglie di Roberto, che resterà ad aspettarci su in barca. Dove andiamo? Chiedo a Roberto. Da anni sogno di fare l’immersione al relitto del Kent, ma so che è un’immersione impegnativa, che richiede lunghi tempi di decompressione e una certa esperienza. Insomma una bella sfida per me, una di quelle molle che ti fanno allenare e credere: “sì dai che quasi ci siamo, presto mi tufferò sul Kent…”.
Non è solo una questione di profondità, anzi, la profondità è strumentale, è la misura del limite che ti serve per ricordare che tutto ha un tempo e uno spazio, anche e soprattutto l’estasi. È possibile rubare o meglio riprendersi questa felicità, partecipando alla meraviglia della vita, anche quella nascosta, insieme ai tuoi compagni, dentro questo limite che va tanto più rispettato quanto più ti dona felicità.
Questo è il Kent per me, la sfida insieme alla squadra e soprattutto al coach e amico Roberto, che mi ha trasmesso un amore per la subacquea che è anche calma e benessere, tutto l’opposto della “sfida” in quanto corsa, sudore, sacrificio, tecnica, strumentazione. Sarà che è napoletano, ma su questo ci siamo intesi subito.
Il Kent lo conoscevo grazie anche ai racconti di Sergio Barone, mio caro amico, “maestro” e compagno di subacquea, sopra e sotto l’acqua, e soprattutto grazie alle foto di Daniele Corsini, subacqueo con la grande passione della fotografia, che quando può raggiunge da Trapani Nautisub, il diving di Roberto, per ritrovare e immortalare il sublime del profondo.

C’era anche lui quel giorno, per mia fortuna, ma neanche lui sapeva dove voleva portarci Roberto.
Finalmente buttiamo l’ancora. Roberto fa il suo brief e ci dice che siamo alla “Secca del ferro”. Guardo sua moglie Virginia, che rafforza con lo sguardo la meta: sì – sembra confermare, siamo alla secca del ferro. “Non l’ho mai sentita”, dico a Roberto. “Ce ne sono ancora di posti che non conosci” – mi risponde.
Scendiamo tutti insieme, Roberto sta vicino a me e giù, sempre più giù nel blu profondo. Meno dieci, meno 15, meno 30… già questa è un’esperienza per me nuova e formidabile. Normalmente vai giù costeggiando una parete, ed è bellissimo perché mentre scendi cominci a vedere la vita muoversi attorno a te, dentro una buca, su un pianoro o su una punta: pesci, molluschi, murene, piante. Stavolta solo piccoli pesci, mare e bollicine: sopra di noi solo mare a perdersi, e lo stesso sotto, di fronte, attorno e dietro. Ho sempre saputo che il mare è immenso, ma non avevo mai provato una discesa in volo dentro l’immenso. Avete presente le immagini dei paracadutisti che si lasciano cadere nel cielo, tutti insieme a cerchio, in attesa di aprire il paracadute? Ecco, più o meno è stata la stessa cosa, un volo in discesa sul mare.
Arriviamo intorno ai 40 metri di profondità e vedo finalmente qualcosa, effettivamente è ferro ma non capisco bene. Scendo ancora più giù, mi fermo un attimo e guardo più in là. Di fronte a me appare chiara e fantastica la sagoma della nave, riconosco la prua: siamo sul Kent.
Prima di emozionarmi mi viene da ridere, capisco che Roberto mi ha fatto uno scherzo, anzi una fantastica sorpresa. Lo guardo e gli faccio segno che ho capito, che mi ha preso per il c…
Poi è davvero tutta emozione, 50 metri di profonda emozione. Sento che sto bene, controllo computer e manometro, è tutto ok. Accendo la piccola action camera che ho appena comprato, è la prima volta anche per lei. Peccato che non ho le luci, non ho fatto ancora in tempo a comprarle, ma io filmo lo stesso prendendo a prestito la luce di Daniele e di Roberto.
(Qui il video amatoriale)
Il Kent, la nave dei Corani, è affondato nel 1978. Era una nave greca battente bandiera cipriota che trasportava, fra altre cose, centinaia di libri del Corano. È andata a fuoco per un incendio, l’equipaggio si è salvato ma la nave è affondata poco al largo della baia della Tonnara, a San Vito Lo Capo.
Nei quindici minuti che passiamo sul Kent ci fanno compagnia immobili e stupiti grandi scorfani, che sembrano i reali custodi del tesoro. E il tesoro è lo stupore stesso della vita che si adatta ed evolve. Un relitto “di ferro” diventa casa per organismi viventi e diversi. Piante e animali ripopolano i gradini della scala che portava da un ponte all’altro della nave. L’albero è sicuro e forte e insieme alla prua nel mare limpido sembra ancora indicare la rotta. Tutto sembra magico e proibito, siamo proprio là dove tutto è cominciato, siamo indietro nei millenni o siamo avanti a guardare ciò che sarà per sempre? Quante storie custodisce il mare? Quante battaglie, quante gorgonie, quanta diversità, quanta vita? Esiste davvero la morte o torneremo tutti ad abitare e respirare l’acqua? Tornano in mente le avventure del capitano Nemo. Giulio Verne aveva ragione, là sotto avviene di tutto e il solo fatto che non lo vediamo non significa che non accada. Il Kent è lì, ma tutto è tranne che fermo.
Stop, Roberto ci fa segno che è ora di risalire, controllo l’aria, è tutto ok, lo segnalo e piano piano ci ritroviamo tutti insieme, come all’andata, ma adesso verso la superficie. C’è un meraviglioso silenzio umano sott’acqua, ma è molto chiaro quello che ci diciamo: assolutamente nulla, non c’è nulla da aggiungere…
Man mano che salgo perdo la visione, il Kent sparisce sotto le mie pinne e mi chiedo se la discesa in paradiso è stata solo un sogno. I minuti di decompressione sono l’occasione per ripensare: ho già nostalgia, vorrei tornare disperatamente giù, incontrare altri pesci, domandare se sono felici, se hanno visto le foto di Daniele, se conoscono i social. Mi fermo, l’azoto nel sangue si sta ormai sciogliendo e torno a ragionare. Controllo il computer, siamo nuovamente rientrati nei nostri limiti di spazio e tempo, possiamo e anzi dobbiamo tornare in superficie.
In barca Virginia ci prende in giro: “E allora? Questa secca di ferro?”.
“Emì” – dice Roberto – “se ti avessi detto che scendevamo sul Kent avresti consumato tutta l’aria in superficie per l’emozione”.
Grande sub, ma anche grande coach, penso fra me. Ridiamo e ringraziamo di cuore Roberto per il viaggio sublime in paradiso.
Ora più che mai so che esiste, in ogni desiderio al confine col limite.
Esiste, e Daniele l’ha pure fotografato. Che giornata fortunata.