“Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto. Di qui il comune e ormai trito proverbio: “somma giustizia, somma ingiustizia”. A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni, andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti. Non merita lode neppure, -se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire). Il senato l’aveva mandato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare. Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l’assegnò al popolo romano. Questo si chiama ingannare, non giudicare. Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie”.
Con questo incipit, tratto dal famosissimo oratore, avvocato, uomo politico, Marco Tullio Cicerone (106 a.C./ 43 a.C.), intendo introdurre un tema, a mio giudizio, oggi attualissimo, che sarà certamente capitato ad ognuno di noi di toccare con mano nella propria esperienza di vita, anche se è amaro ammetterlo: spesso giustizia e leggi non coincidono affatto. Non sono rare, infatti, le situazioni in cui l’applicazione meccanica, schematica, fredda di una norma provoca esiti iniqui.
Il diritto romano nelle sue prime manifestazioni, in età arcaica, era fortemente rigido; in quanto legato ancora alla sfera religiosa, esso veniva considerato perfetto, immutabile, ma soprattutto intoccabile e riservato ai soli “cives”, cioè ai “veri cittadini” romani. Si incominciò ad avvertire la necessità di un cambiamento quando Roma, proprio in virtù delle sue conquiste, entrò in rapporto con nuovi popoli, intorno al III secolo a.C. Nel 242 a.C. venne infatti istituita la nuova figura del “praetor peregrinus” che avrebbe dovuto dirimere le controversie secondo un criterio meno formale e più agile. In tale contesto fu l’”aequitas” “equità”, cioè “giudizio sereno ed equilibrato” che permise al nuovo magistrato di giungere a conclusioni più rispondenti alla concretezza dei casi. Uno degli autori più ricchi di riflessioni su questo tema fu proprio il nostro Cicerone.
Possiamo sintetizzare in tre punti fondamentali il suo pensiero su tale argomento: innanzitutto a situazioni uguali deve necessariamente corrispondere un’eguale disciplina; secondariamente egli colloca sul medesimo piano “iustitia” ed “aequitas” “giustizia” ed “equità”; nella “Rhetorica ad Herrenium”3.3, egli afferma in modo sintetico, ma perentorio “iustitia est aequitas” “giustizia ed equità corrispondono”. In terzo luogo distingue un’ “aequitas naturalis”, “che sta al di fuori dell’ordinamento”, da un’ “aequitas constituta” “insita nell’ordinamento”. Di questa separa poi tre parti: una “pars legitima”, reperibile nel diritto scritto, una “pars conveniens”, fondata sugli accordi, e, infine, una “pars moris vetustate firmata” cioè consolidata nei mores ovvero nei costumi degli antichi.
Anche i Greci naturalmente, noti per la loro saggezza, avevano riflettuto a lungo su questo tema. Nel V a.C. ad Atene esistevano, come oggi, i giudici popolari, cittadini sorteggiati appositamente per svolgere funzioni giudiziarie all’interno del tribunale popolare dell’Eliea: essi si impegnavano con un giuramento a servire sia la legge sia il buon senso, il “conveniente”. Invece, secondo lo storiografo greco Erodoto (484 a.C./425 a.C.), il concetto di equità e quello di legge, di norma, di diritto rigido non coincidono, anzi possono essere facilmente in contrasto fra loro.
“Molti preferiscono alla giustizia ciò che è più conveniente”. (“Storie” III,53). Il filosofo ateniese Platone (428 a.C./348 a.C.) presenta entrambe le facce della medaglia, non trovando alla fine neanche lui una coincidenza tra le leggi, la giustizia e il conveniente.
Nell’opera “Politico”, 294a-301, egli afferma che nulla di meglio può esservi di un monarca perfetto perché questo si adegua alle situazioni e fa nel momento necessario ciò che è veramente necessario, mentre le leggi sono irrigidite attraverso la scrittura e non saranno mai sufficientemente pronte ad adattarsi alla situazione concreta. Ma Platone è anche consapevole che sul piano reale è impossibile che questo si verifichi, che si riesca a trovare, in qualche luogo e in qualche tempo, un governante perfetto, e questo, nonostante le nostre continue e quotidiane lamentele, non avverrà mai, in nessuna epoca, sotto nessun regime politico. Perciò egli conclude affermando che il governo migliore rimane di certo quello delle leggi. «Io credo, infatti, che contro le leggi stabilite sulla base di una lunga esperienza e per consiglio di uomini che le hanno meditate con cura nei singoli particolari e che hanno persuaso la popolazione a promulgarle, chi osasse agire contro queste leggi, commetterebbe un errore, sconvolgendo ogni attività in misura ancora maggiore di quanto facciano le leggi scritte” (“Politico”, 300 b). Ricordiamo che Il suo maestro Socrate (470 a.C./399 a.C.) aveva rifiutato la possibilità offertagli dai discepoli di fuggire dal carcere nel quale era stato rinchiuso in seguito ad un’iniqua sentenza, proprio per non disubbidire alle leggi della sua città che lui aveva sempre massimamente onorato.
Aristotele (384 a.C./322 a.C.) nell’”Ethica Nichomachea” distingue l’”equo” dal “giusto secondo la legge”: l’”equo” deve correggere la giustizia dettata dalle leggi, ovvero l’”equo” deve intervenire quando la legge è lacunosa a causa del suo carattere universale che di certo non si può adattare a tutte le singole specifiche situazioni. La responsabilità naturalmente non deve essere attribuita né alle leggi né ai legislatori, ma alla natura delle cose, perché “non è possibile trattare correttamente l’universale”.
In sostanza, l’equità per Aristotele può svolgere una funzione suppletiva o correttiva nei confronti della legge stessa. Oggi è particolarmente difficile trattare della “giustizia” (in greco “díke”, in latino “ius”), poiché questo bellissimo e da sempre ambitissimo valore vive purtroppo una profonda crisi.
In diversi casi recenti e attuali è palesemente emersa una difficoltà ad armonizzare la teoria con la pratica nell’esercizio della giustizia stessa, anche se oggi nella legislazione italiana è previsto un margine di elasticità da parte del giudice e ancora di più questa è contemplata nell’istituto della “mediazione” che nel mondo anglosassone è chiamata “Alternative Dispute Resolution”.
Concluderei con una massima che, a mio giudizio, racchiude tutta la saggezza e la sana pragmaticità romana a cui bisognerebbe sempre ispirarsi in situazioni di dubbia risoluzione: “Salus populi suprema lex esto”, “Il benessere del popolo deve essere la legge più importante” (Cicerone).