Quanti di noi, ogni momento, sono intenti a guardare il proprio cellulare? Immersi nella connessione perenne, con tutti e tutto, e dunque con niente? C’è l’ingordigia di cogliere qualsiasi aspetto della vita corrente, nell’illusione di viverla più intensamente che in ogni altro modo. Un’abbuffata di notizie, video, contatti con chiunque, senza sensi di colpa per questo perdimento continuo del nostro esistere.
Viviamo una corruzione del tempo, ridotto a istanti, fugaci momenti, frammenti millesimali; la testa china su uno schermo, metafora di una condizione che ci porta a guardare soltanto ciò che è più ravvicinato al corpo o alla mente. Fosse il desiderio di preservare il fisico dal degrado irrimediabile degli anni; l’attrazione per il denaro o per il potere, strumenti di affermazione del proprio io; il sogno di perpetrare il proprio “genio” nelle opere lasciate in eredità o addirittura attraverso la generazione di altri esseri umani.
Il presente è l’orizzonte unico di un’illusione perenne, il segno di un mutamento antropologico. La modernità si accompagna allo smarrimento del senso del tempo, ridotto e circoscritto agli istanti nei quali ci ritiriamo a vivere. Perdiamo una bussola importante, quella che dovrebbe guidarci tra gli avvenimenti, a capire il senso dei dolori e delle gioie.
Il solo presente si smagrisce a istante precario, fugace, e segnala in modo sconfortante la fragilità della condizione umana, il suo essere così fluttuante nel divenire inesorabile delle cose. Rischiamo di vivere senza slanci, o un pensiero che ci trascenda, o una stella cometa che ci guidi nel buio della notte così fredda.
Il frastuono che accompagna le feste, altra manifestazione di questo esautoramento del senso del tempo, nasconde e quasi annulla una dimensione che è opposta alla fragilità e alla debolezza. Quella dell’attesa e della speranza, così strettamente collegate. L’unica che ci permetta di stare nella vita vivendo, senza timore. Non è possibile avere tanta fretta, nel quotidiano, da non scorgere che abbiamo bisogno di memoria, di ricordi, di passioni che ci proiettino verso un futuro da costruire a piccoli passi. Appunto la dimensione del tempo oltre il presente, che abbracci il passato e il divenire.
Il Natale rimanda al senso religioso di quest’attesa, che è un richiamo all’arrivo di qualcuno che, in quel presente di oltre 2000 anni fa, ha però squarciato le tenebre dividendo il tempo tra un prima e un dopo, e dando corpo (il suo corpo) alle speranze di tutti gli uomini.
Eppure proprio la nascita di quel bambino a Betlemme ha reso evidente un’aspirazione così diffusa tra gli uomini: il bisogno di “un di più” che vada oltre l’istante fugace, la provvisorietà del quotidiano. Qualcosa verso cui tendere, e proiettare l’esistenza, per rinascere dopo le ferite sofferte. Non per sublimare gli affanni, ma per scoprirne il senso profondo.
L’attesa è una condizione profondamente umana, intrinsecamente religiosa nel suo rimando ad un altrove che ci trascende senza travolgerci, dando uno scopo al nostro agire. E’ il segno profondo della nostra umanità oltre il presente, che ovunque possiamo cogliere: nella mamma prima che suo figlio venga alla luce; nel fornaio che mescola la farina con il lievito; nello studente che prepara i suoi esami; nel malato prima di un intervento; nel frate che in ginocchio congiunge le mani pregando.
Buon Natale a tutti i lettori.