Da bambino e fino alle scuole medie sono cresciuto con il sogno di diventare calciatore, un sogno molto comune.
Io ci credevo, mi intervistavo allo specchio pensando di essere Rivera, ero il capitano della squadra con cui vincevamo spesso dai salesiani. Ci tenevamo a vincere, ma con classe. Era più importante l’azione, l’eleganza, il lancio e la rovesciata finale come Pelè. Se poi vincevamo meglio ancora, ma l’importante era lo spettacolo.
Poi arrivò la musica, e anche questa doveva essere bella da suonare, interpretare e comporre, ma questa volta compresi subito che sarebbe stata una compagna di vita e non di lavoro.
E infatti, come per il pallone, fu ed è per sempre. È incredibile come oggi so spiegarmi tanto di me e delle mie scelte di vita e professionali guardando indietro, all’oratorio e alle passioni che non mi facevano dormire, alle grandi e intense amicizie.
Con gioia, pur nella difficoltà di questi tempi complessi e incerti, mi riscopro me stesso, solo più grande. Perché il lavoro, a cui dedico come tutti gran parte delle ore di ogni giorno, non è necessariamente un’etichetta, un mestiere già scritto di cui applicare il manuale, no. Faccio un po’ di cose nell’ambito della comunicazione ma faccio principalmente le stesse cose che mi facevano stare bene, anzi benissimo da giovane: il capitano, quando posso e richiesto dai miei compagni d’avventura; il creativo in mezzo a creativi, perché per me è insopprimibile il bisogno di esprimermi in modo originale e libero; l’imprenditore, inteso come un allenatore di un piccolo network di amici professionisti con cui scalare il mondo, a modo nostro, che significa ancora una volta più rovesciate che scudetti.
Già, i numeri. Siamo tutti cresciuti con i voti della scuola: sei, sei meno, otto, quattro. Il sistema decimale però si è rivelato molto più arcaico, autoritario e inflessibile dei dieci comandamenti. Delle tavole della Legge sappiamo riconoscere un significato storico e un’ispirazione morale e spirituale. Ma sette in matematica o cinque in latino esattamente che cosa significano? E soprattutto, quanto raccontano di oggi e quanto del possibile domani?
In natura non nasciamo ingegneri o pasticceri, ma magari curiosi e aperti al nuovo; non necessariamente sindacalisti, ma talvolta già da piccoli audaci e “giustizieri”. E così non si nasce conduttori o comici brillanti, eppure molti di noi hanno avuto il compagno di scuola divertente, un po’ artista, diciamo un “fuori-classe” in tutti i sensi, perché non potendo contenere le sue potenzialità, veniva spesso buttato fuori.
Le potenzialità, quali? Alla fine del liceo io rientravo nella categoria di quelli che sapevano esattamente ciò che non volevano fare (medicina, giurisprudenza, ingegneria) ma per il resto il futuro era tutto ancora da scoprire.
E fu Milano, economia. Oggi so che non è stata la scelta giusta in quanto a passione -non ho passione per l’economia, ne ho molto di più per le materie umanistiche- eppure so che è stato meglio così e che grazie alle mie capacità di stupirmi e di adattarmi ai contesti per soddisfare le mie aspirazioni più profonde, oggi sono felice delle scelte fatte.
Non sapevo niente dell’economia aziendale. Sapevo però che mi piaceva la pubblicità, scrivevo rime e canzoncine divertenti con grande facilità e ironia. Pensavo alla pubblicità e agli slogan con l’ingenuità di chi non conosce il marketing.
Studiare è stato facile, poi è arrivato il contesto, la grande azienda, la prima vera difficoltà.
Mi sentivo contento da una parte, perché si trattava di una delle prime aziende editoriali italiane: giornalismo, cultura, marketing e pubblicità. Però dovevo confrontarmi anche con uno stile “alto” e raffinato in termini di abitudini e consumi a cui non ero consono, il mondo della moda, degli aperitivi e del look non erano proprio il mio forte.
Eppure ho vinto la mia sfida puntando sui miei punti di forza e ammettendo con ironia le mie debolezze. Non sapevo consigliare il locale di tendenza sui Navigli, ma piano piano presi coraggio e grazie ai miei capi, molto aperti a fiduciosi, cominciai sempre più a essere me stesso, portando in ufficio la mia creatività, dirigendo e scrivendo il giornalino aziendale, meglio detto “house organ”. E di lì un crescendo, curando personalmente la nostra comunicazione, le campagne pubblicitarie, le brochure e le fiere. Fino al massimo dell’ambizione: l’energia positiva di quegli anni contagiò sempre più i capi al punto che osammo cambiare il paradigma della motivazione, rendendo davvero protagonisti le risorse umane e la rete vendita. Così le noiose convention annuali dove devi stare zitto e battere le mani all’amministratore delegato diventarono palcoscenico in cui le persone dell’azienda parlavano ai colleghi e ai capi mettendo in scena le proprie abilità. E con un chiaro e semplice ricorso alle metafore finalmente portammo in azienda la musica, l’arte e il teatro. Fu incredibile vedere colleghi recitare, fotografare e animare le serate con dei concerti straordinari, i risultati superarono decisamente le aspettative e le convention diventarono uno strumento di “brand value” di vera innovazione. Le persone, messe in condizione di essere se stesse e potere essere ascoltate, pur all’interno di un meccanismo istituzionale da rispettare, hanno dato il massimo perché si sentivano felici di far parte di quel gruppo.
Gli anni sono passati, oggi sono troppo poche le aziende che davvero credono nella ricerca della felicità dei propri collaboratori come parte integrante e necessaria della strategia d’impresa.
Peccato, perché la vita è una sola, ma il futuro dell’impresa supera le generazioni e però ne tiene memoria. E la memoria è Brand.

Oggi vivo come tutti preoccupato per il futuro, però voglio stare dalla parte di mio figlio e dei giovani millennials come lui. È bello vedere che anche lui ama lo sport. È altrettanto bello vedere che cresce e che ha capito senza traumi che non farà il calciatore. Però potrebbe lavorare comunque nel mondo dello sport, oppure fare il docente e “allenare” gli studenti, oppure il cuoco. Allora sarà felice se sarà un cuoco “sportivo”.
Mi sorprende l’atteggiamento di molti genitori che, presi dalla paura dei nuovi tempi, pressano perché le scelte siano necessariamente altrove da casa, dicendo che il futuro è solo a Milano, Londra, New York o Shangai e che lo sport, l’arte, la musica, i video giochi e gli scacchi è meglio lasciarli stare subito e concentrarsi su ingegneria o medicina, che lì c’è lavoro.
D’accordo, ma voglio testimoniare a mio figlio e ai giovani come lui di ascoltare bene cosa li rende felici, nel senso più profondo. Quale atteggiamento, quale aspirazione, quale istinto naturale insopprimibile.
Perché se non si è geni come Mozart, Maradona o Picasso, non necessariamente il lavoro combacia con l’attitudine specifica desiderata.
Però certamente il lavoro è uno dei contesti più importanti in cui applicare la felicità. Diamo tempo al tempo, non pensiamo che la scelta di domani sia così drammaticamente fatale per il nostro futuro. Proviamo a credere invece che la conoscenza più importante è quella del nostro potenziale di oggi, talento di domani, che renderà originale e unica la nostra interpretazione della professione.
Del resto, non si diceva che anche i bancari hanno un’anima?