Non avevo ancora compiuto dieci anni la prima volta che sono andato in vacanza senza i miei genitori. All’inizio del mese di luglio dell’anno 1961 ero partito con il treno del Brennero insieme ad altri ragazzini della mia scuola, guidati dall’aitante sacerdote polacco Stanislao Janiscky gran camminatore e super esperto di sentieri, rifugi alpini e strade ferrate.
Si dormiva in cuccetta anzi non si dormiva proprio per niente, a dire la verità, per il fracasso che tutti facevano durante tutta la notte a base di grida, pernacchie, rumori e drammatici odori molesti. Eravamo in sei per ogni scompartimento, distesi su striminzite cuccette che avevano le coperte ruvide come la barba di uno scaricatore di porto e i lenzuoli logori e strappati come se li avesse appena rosicchiati un topo. La mattina seguente, stravolti dalla notte insonne, venivamo raccattati da un vecchio autobus di linea che partiva sbuffando su per i tornanti del verde e rigoglioso Trentino, regione che, in realtà, noi neanche sapevamo dove si trovasse esattamente, poiché in genere, durante l’ora di geografia in classe, svolgevamo accanite partite di Battaglia navale. Inoltre all’epoca pochissima gente faceva vacanze in montagna ed era davvero anomalo arrivare fin lassù per dei ragazzetti romani che al massimo, d’estate, si spingevano con le famiglie fino ad Ostia, Fregene e Lavinio. Il luogo di destinazione finale era la ridente Penia, minuscola frazione della più conosciuta Canazei, nella val di Fassa.
Si scendeva a Villa Agomer, amena pensione a gestione familiare che sorgeva lungo le sponde del torrente Avisio. Le stanze per il soggiorno non venivano assegnate casualmente. Ai più grandi, infatti, toccavano in sorte comode camere a due letti singoli, mentre i piccoli erano invece stipati in orrende sistemazioni a quattro posti, su tremolanti letti a castello di legno. I bagni erano in corridoio, a disposizione di tutti, con un programmato unico turno settimanale a testa per il bagno in vasca. Non era molto quell’unico giorno, in verità, considerato che, durante la lunga settimana, facevamo tutti escursioni in montagna di molte ore, oppure interminabili partite a pallone e scatenati giochi all’aperto. Quell’unico solitario bagnetto non poteva di certo sanare i maleodoranti lezzi di piedi e ascelle sudate che si diffondevano tenebrosi e travolgenti nelle stanze della modesta pensione.
Ogni settimana si facevano obbligatoriamente tre passeggiate in montagna, anche se il termine passeggiata era usato da padre Stanislao in modo assolutamente improprio. Non si trattava infatti del semplice “vado a fare due passi fin lì e torno”, quanto piuttosto di un “mi ammazzo di fatica per arrivare in cima a”. Ricordo scarpinate pazzesche in salita di tre o anche quattro ore per raggiungere il rifugio Tony Demetz alla forcella del Sassolungo oppure il Contrin, sul massiccio della Marmolada. Si procedeva in fila indiana, in assoluto silenzio. Padre Stanislao guidava il gruppo a passo ben cadenzato, mentre il giovane e occhialuto prefetto Mantovani chiudeva la fila, pronto ad intercettare qualche poveraccio di turno che osava contravvenire alle regole oppure semplicemente provava a scherzare un po’.
Ogni tanto il sacerdote afferrava il fischietto che portava legato intorno al collo. Due suoni avrebbero “significato si può parlare a bassa voce”, tre suoni invece “potete procedere in ordine sparso”. In verità non sono certo di aver mai sentito uscire da quel fischietto né due suoni né tantomeno tre. Alla partenza c’era solo un unico lunghissimo fischio prolungato che significava “state zitti e camminate”. Arrivavamo in cima esausti e ci avventavamo come lupi affamati sui cestini del pranzo preparati la mattina dalla cuoca della pensione. Ci giocavamo alla morra cinese panini alla cotoletta e quelli frittata e salame, banane con pezzi di formaggio coi buchi, strudel di mele con barrette di cioccolata, mentre i gestori del rifugio versavano nei bicchieri genuini succhi di lamponi e mirtilli e cioè l’unica cosa che veniva acquistata lì.
Un giorno, sul Sassolungo, io e altri tre ragazzi ci allontanammo dal gruppo, subito dopo pranzo, per fare un po’ di esplorazione personale nei dintorni. Dopo un po’ entrammo in una grotta, superando rovi e tele di ragno. E lì dentro, con enorme stupore, scoprimmo importanti reperti della Prima guerra mondiale. Non scherzo affatto, è proprio la verità. C’erano bossoli di fucile, elmetti da trincea, gavette, scodelle e, infine, anche una piccola scatola di latta. Eravamo tra i primi italiani ad andare in vacanza su quelle montagne dopo la Seconda guerra mondiale e i difficili anni Cinquanta della ricostruzione del nostro paese. Così non fu un caso che fummo proprio noi a trovare tutto questo, nessuno finora era ancora entrato in quella grotta. Pieni di curiosità aprimmo con delicatezza la piccola scatola di latta, come se si fosse trattato di un cofanetto magico. Invece di monete d’oro e gioielli, trovammo solo alcune lettere. Erano di un soldato italiano che, insieme al suo reggimento, aveva passato lassù chissà quanto tempo, mentre forse il mortaio austriaco, sull’altro versante della montagna, continuava a sparargli addosso. Il fatto che quelle lettere fossero ancora lì significava che chi le aveva scritte non aveva avuto modo di spedirle e che quindi era morto in guerra. Questa assoluta certezza ci mise una grande tristezza che non ci impedì però di aprire le buste per vedere quello che c’era scritto. Riuscimmo a leggere solo le primissime righe.
“Cara mamma, siamo quassù da così tanti giorni e il tempo non passa mai. Continua a piovere e in lontananza si sente il rumore del cannone…”. Fu tutto quello che facemmo in tempo a leggere perché, dopo pochissimi secondi, tutte le lettere esposte d’improvviso all’aria dopo quasi cinquant’anni, iniziarono a sgretolarsi e si polverizzarono infine in migliaia di frammenti che andarono a disperdersi all’interno della grotta, mentre noi continuavamo a guardare a bocca aperta l’inaspettata tormenta di pezzettini di carta e di parole scritte che si muovevano disordinatamente nell’aria e, in fondo, anche nel tempo.