Quartiere San Saba, Roma Sud. Dieci lotti di villini popolari costruiti nel 1914, su decisione dell’allora sindaco Nathan e disegni del giovane architetto Pirani. Costituiscono ancora oggi un autentico vanto per il rione, un’oasi felice e un po’ provinciale che ha al centro la tranquilla piazzetta Bernini, su cui fanno allegramente capolino la scuola elementare Franchetti, l’edicola dei giornali, i quattro banchi del mercatino all’aperto, la trattoria Al Callarello, il negozietto di alimentari Spuntarelli, il piccolo teatro Anfitrione e l’antica Basilica del sesto secolo.
Nel 1967 era esattamente identica, solo che al posto del teatro c’era il cinema Rubino, pidocchietto di terza visione, sedie di legno cigolanti, mostaccioli, pop corn e aria intrisa di fumo.
Quella mattina di domenica noi del limitrofo quartiere del Miani, costruito negli anni venti, a ridosso delle mura Aureliane, con la chiesa di Santa Marcella al centro, avevamo imboccato la via Guerrieri direttamente in maglietta e calzoncini per andare a disputare la partita di calcio sul campo dell’oratorio di San Saba. L’incontro, anzi il derby, come lo chiamavamo noi, era stato organizzato dai due rispettivi vice parroci. Il nostro don Arnaldo era soprannominato Er Civetta, per il suo evidente e stortignaccolo naso aquilino. Dopo la partita fraternizzammo con i giocatori avversari, tanto che decidemmo lì per lì di fondere le due squadre e di iscriverci al torneo Allievi che si sarebbe disputato da lì a poco sui campi del San Tarcisio, sotto ponte Marconi. I due oratori sostennero le spese e acquistarono le magliette di colore viola acceso.
La nostra squadra non era male, ma ci mancava il portiere. Quello che avevamo, tal Angelo detto er Nonnetta, era bravo e coraggioso, ma aveva un problemino. Era troppo basso e non arrivava mai bene a prendere le palle alte. Appena gli avversari se ne accorgevano, alzavano i pallonetti e per lui non c’era niente da fare.
Durante gli allenamenti si presentò un giorno un tipo alto e magro, capelli scuri, molto sicuro di sè. Era Claudio, il figlio del macellaio di Testaccio che però abitava a San Saba, proprio dietro la parrocchia. I suoi amici della zona lo avevano soprannominato Er Pecione, chissà perché. Aveva mollato fuori la sua lambretta che gli serviva per fare le consegne delle carne e indossava ancora il camice bianco un po’ sporco di sangue bovino. Io pensai che forse era proprio per questo che lo avevano soprannominato pecione.
«Posso giocare pure io?»
«Sei capace in porta?»
«Si, ma preferisco giocare all’attacco».
«Mettiti in porta, Cla’, che è mejo», rispondemmo praticamente in coro tutti quanti.
Claudio lo conoscevano tutti i ragazzi del rione. Faceva anche parte del gruppo del giornaletto del Triangolo, foglio ciclostilato più o meno settimanale, pieno di disegni e barzellette, delle quali si occupava personalmente lui, tirandone sempre fuori di molto divertenti. Ogni tanto i “giornalisti” della rivista organizzavano alcuni incontri in oratorio per discutere di un tema a loro assai caro, quello del mito di Atlantide. In redazione, oltre al barzellettaro Claudio, er Pecione, c’erano tutti gli altri e cioè Maurizio, Giampiero, Massimo, Rodolfo detto er Piffero, Giorgio detto Nasca, Paolo detto Pablito e Luigi detto Accio.
Durante il campionato il nostro gruppo della squadra fraternizzò sempre di più. Oltre a giocare a pallone, facevano gite, il primo maggio andavamo fuori porta a mangiare le fave con il pecorino e una volta, insieme ai nostri simpatici allenatori Chiti e Turchetti, finimmo anche allo stadio Olimpico a vedere l’incontro Italia – Polonia, nel quale l’ala sinistra Paolo Barison realizzò tre dei sei goal con cui gli azzurri vinsero la partita.
«Un giorno ci voglio giocare anche io in questo stadio», disse Claudio, seduto vicino a me.
«Si, va be’. Ma quanta Coca Cola ti sei bevuto, Cla’?», commentai io, pensando a quel suo sogno così folle. Ma non tutti i sogni sono impossibili da realizzare, per fortuna.
Da lì a poco, infatti, Claudio, caparbio com’era, smise i guantoni da portiere e iniziò a giocare all’attacco, proprio come voleva lui. Un giorno andò al campo delle Tre Fontane a fare un provino nella Roma dell’allora allenatore Helenio Herrera che lo prese, come attaccante della squadra primavera. L’anno seguente Antonio Trebiciani, responsabile della primavera, decise di cambiargli ruolo e lo trasformò in difensore. Esordì in serie A nel 1973 in un Genoa-Roma, sotto il nuovo tecnico Manlio Scopigno, detto il filosofo. Restò a Roma per sei anni e poi passò nel Catanzaro e poi ancora nel Catania e, infine, nel Palermo, dove chiuse la carriera da calciatore, iniziando quasi subito quella da allenatore. Dapprima con il Vigor Lamezia e, qualche tempo dopo, nel Cagliari che riuscì a portare dalla serie C fino in serie A.
Da lì le squadre che lui ha allenato non si contano quasi più: Napoli, Fiorentina, Valencia, Atletico Madrid, Chelsea, Parma, Juventus, Roma, Inter, Monaco, Nazionale Greca. E infine Leicester, cittadina inglese di 285 mila abitanti, delle Midlands, famosa per aver dato i natali al comico Graham Chapman dei Monty Python, a Gary Lineker, ex centravanti della nazionale e allo scrittore Julian Barnes. E’ qui che Claudio compie il vero miracolo. Riesce a vincere la Premier League con un squadra che, fino a quel momento, pensava solo a salvarsi.
Il presidente della squadra è il magnate thailandese Srivaddhanaprabha, proprietario dei duty free King Power. La squadra del Leicester costruita da Ranieri è un vero gioiellino e ha tre grandi giocatori: Mahrez, Kantè e, soprattutto, Vardy, i cui goal spettacolari trascinano il gruppo alla vittoria sui più celebri e sacri campi della Premier. L’ultima giornata, invece di attendere in Inghilterra il risultato della sfida decisiva tra Chelsea e Tottenham, Claudio sale a sorpresa su un aereo e, insieme a sua moglie Rosanna, atterra a Roma a trovare la mamma di 96 anni.
Quando torna a Leicester, un paio di giorni dopo, viene letteralmente travolto dall’affetto e dalla riconoscenza di un’intera città che ancora non può credere che il miracolo sia accaduto davvero.
Dicono che, durante gli allenamenti, spesso Claudio si mette a guardare le partitelle dei suoi atleti da dietro ad una porta, perché solo da lì si possono vedere bene gli schemi e i movimenti dei giocatori in campo. Ma lui è abituato a guardare il gioco da lì. Ha iniziato a farlo cinquant’anni fa, su un campetto dell’oratorio di San Saba. E come recitava il titolo di una vecchia trasmissione televisiva in bianco e nero degli anni sessanta, sono orgoglioso di dire che sul quel campo “c’ero anch’io”.
«Mettiti in porta, Cla’, che è mejo».