“Stay warm”, ti dicono qui, per salutarti, quando stai per uscire da un negozio. Stai calda. Cerca di proteggerti dal gelo. Sembra una presa in giro. Come diavolo si suppone che io possa stare al caldo dovendo affrontare le strade di una città in cui mi sembra di essere esposta al vento nuda, nonostante io abbia addosso la canottiera di lana con sopra una maglietta di cotone con sopra un maglioncino con sopra un maglioncione con sopra il piumino con sopra il montone? “Stay warm” un cavolo! Eppure ci si prova. Ci si prova in tutti i modi, muovendosi di corsa come animaletti infreddoliti. Un inverno a New York insegna a gestire i propri limiti, le proprie energie e il rapporto con la natura molto più di un corso di sopravvivenza in mezzo al bosco. Impari a non camminare contro vento, a stare “on the sunny side of the street” per necessità, più che per ottimismo, a risparmiare le energie quando puoi, a correre quando devi, a trovare rifugio velocemente nei posti più strategici, a ripararti. Andrebbe davvero scritto un manuale di sopravvivenza newyorchese. Forse, nessuno lo ha mai fatto perché chi è qui è troppo impegnato a sopravvivere per mettersi a spiegare agli altri come fare. È anche un po’ una forma di selezione naturale.
È paradossale, ma proprio qui, nella città dei grattacieli in cui tutto è automatizzato e veloce e super moderno e avanti, proprio qui, la natura è iper presente, dominante. I newyorchesi lo sanno e sono pronti a fermarsi, quando è il caso. Sono anche abituati a non scomporsi più di tanto quando la natura stravolge la loro quotidianità in una maniera che per un’europea come me è impensabile.

Tipo quando è passato l’uragano Sandy nel 2012. Pochissimi anni fa. Ringrazio il cielo che l’idea di venire a New York mi sia venuta dopo e in questo modo non ho vissuto quell’inferno che, però, chi era qui racconta con grande tranquillità. Questi si sono ritrovati con mezza Manhattan senza luce per almeno una settimana e dicono cose come: “Sì, in effetti, era una seccatura dovere attraversare il ponte di Brooklyn a piedi per andare a ricaricare il telefono e fare la doccia a casa di mio cugino” o anche: “I primi due giorni nel mio palazzo non avevamo nemmeno l’acqua, ho dovuto comprare l’acqua minerale per farmi il bidet visto che avevo il ciclo”, come se poi ci fossero i bidet e non si trattasse di qualche rocambolesco tentativo di lavarsi a pezzi dentro alla doccia o sul lavandino. Chi viveva vicino all’acqua è stato sfollato per necessità o per precauzione. In pratica, da un momento all’altro ti ritrovavi costretto a stare fuori casa. Per settimane. “E dove siete andati?”, chiedo io angosciata, pensando che se fosse capitato a me, non avrei proprio saputo a chi appiopparmi. Non è che qui io abbia parenti o amici così stretti da potere piombare a casa loro da un momento all’altro. “Un giorno da un amico, un giorno da un altro”, rispondono. D’altronde qua la gente è abituata a queste situazioni di emergenza e scattano forme di solidarietà impensabili.
Così, quando è stata annunciata la bufera di neve Jonas, tutti hanno preso la cosa molto sul serio. C’erano file chilometriche ai supermercati per fare provviste come se la bufera dovesse durare settimane. A me è arrivata una email dalla compagnia della luce in cui mi spiegavano come gestire ogni tipo di emergenza. Il sindaco ha fatto un discorso in cui chiedeva in modo accorato a tutti i cittadini di starsene chiusi in casa.
Io all’inizio l’ho presa molto sul ridere. In fondo era prevista solo una giornata di neve, di sabato oltretutto. Una perfetta scusa per oziare tutto il giorno, cosa che probabilmente avrei fatto comunque, a prescindere da Jonas. Ho fatto un bel po’ di spesa, questo sì, e ho focalizzato su ogni tipo di biscotti, snack e patatine, però pensavo che l’allarmismo attorno a Jonas fosse davvero esagerato. L’ho pensato fino alla notte di venerdì sera, quando uscendo da un evento insieme a un’amica, invece che tornare a casa come consigliava il sindaco, siamo andate a bere in un locale dall’atmosfera fuori dal tempo. Sembrava di essere in un posto di mare in Irlanda e fuori nevicava sempre più forte. Passavano spazzaneve in continuazione, eppure la neve attaccava e parecchio. Io avevo i tacchi ai piedi e a un certo punto mi è venuta l’angoscia di rimanere bloccata dentro a quel locale fino a chissà quando. Non ne avevo nessuna voglia. Volevo tornare a casa e stare sotto al mio piumone, con i miei libri, il mio Netflix e le mie provviste di cosette buone da mangiare. La mia amica invece era entusiasta della tempesta che stava arrivando e voleva stare fuori tutta la notte, fomentata dal proprietario del locale che continuava a offrirci da bere, dicendoci che non potevamo perdere l’occasione di vedere qualcosa di tanto incredibile come quello che stava arrivando e che tutta New York si sarebbe buttata lungo le strade per vedere.
Sarà anche stato vero, e in effetti non mancavano di arrivare al locale ogni tanto nuovi debosciati, ma le strade mi sembravano deserte come non mai e soprattutto sarà anche stato interessantissimo stare a vedere la bufera, ma io volevo solo stare a casa mia. Insomma, alla fine me ne sono andata e non me la sono nemmeno sentita di prendere la metropolitana che pure funzionava ancora perfettamente, perché mi sentivo veramente insicura a camminare fino alla fermata sui tacchi. Così ho chiamato un Uber e sono arrivata felicemente a casa da cui non sono più uscita.
Ho passato tutto il sabato in totale relax ed è stato bellissimo. Fuori vedevo la neve cadere in una maniera surreale. Sembravano gli effetti speciali di un film. Davvero, non sembrava vero. I più avventurosi dei miei amici sono comunque usciti, io sono stata felicemente in letargo e avrei potuto restare così altri due o tre giorni senza avvertire il minimo senso di noia. Stavo benissimo. Le previsioni del tempo nel caso di Jonas sono state davvero perfette. Come previsto, ha nevicato tantissimo da venerdì a sabato notte e poi magicamente domenica mattina c’era il sole. Allora sì che sono uscita, e presto, quando ancora la città era avvolta da un’atmosfera incantata. Io sono stata fortunatissima perché alcuni miei vicini, avendo dei cani da portare a spasso, avevano già spalato la neve, ma a poche case da me, quando sono uscita, altri erano ancora murati dentro dalla neve.

Domenica è stata un sogno. Un vero regalo dal cielo. Le macchine in circolazione erano pochissime (il giorno prima c’era stato il blocco totale) e ho visto qualsiasi cosa: genitori trascinare i loro bimbi sugli slittini, cagnolini pazzi di gioia con le scarpette ai piedi, addirittura qualcuno con gli sci. Central Park è stato per tutto il giorno il trionfo degli sport invernali. Sembrava davvero di essere in montagna. Non solo al parco: tutte le strade erano piene di persone pienamente intenzionate a “make the most” della situazione.
Questo fino alle 5 o alle 6 pm. Poi purtroppo non è rimasto altro che il pantano. Pantano e muri di ghiaccio. Enormi pozzanghere ghiacciate da saltare e strade poco agibili per giorni e giorni e giorni. È passata una settimana e non siamo ancora tornati alla normalità nonostante, per fortuna, non abbia più nevicato e ci sia stato sempre il sole. Per questo, ho una nuova convinzione: una grande nevicata è come una sbronza. Sul momento di diverti tantissimo, ma poi ne pagherai le conseguenze e ti chiederai se ne valeva veramente la pena. In questo caso per me ne è valsa eccome la pena, come d’altronde, per le migliori sbronze della mia vita.