Come previsto, l’incontro con l’ingegnere si rivelò inutile. Questo signore di circa cinquant’anni, invece di spifferargli nuovi aspetti della vicenda, cercò di giustificare un’opera pubblica che non sarebbe servita a nulla. Si era già nei primi anni ‘90. Ferdinando aveva letto un rapporto riservato sugli appalti pubblici in Sicilia. Dove il nome di questo ingegnere compariva più volte. Già allora si intravedevano i primi bagliori di Tangentopoli. Che dalle sue parti si sarebbe chiamata Mafiopoli. Mentre questo personaggio parlava, Ferdinando lo guardava, ma non lo ascoltava. L’ingegnere parlava e lui pensava. Ad altro. Cercava di immaginare, per esempio, come, quando e dove lo avrebbero arrestato. Anche in questo caso, era solo questione di tempo.
L’incontro durò mezz’ora. Ferdinando si limitò a porre qualche domanda e a fingere di prendere appunti. Sulla strada che lo portava a Sciacca rifletteva su come avrebbe aggiornato l’inchiesta che giaceva da giorni e giorni sulla scrivania del caporedattore del suo giornale. Avrebbe dovuto ‘rimpuparla’ per i napoletani. Tutto sommato, un lavoro non troppo complicato. Con sé aveva portato una copia dell’inchiesta. Cambiare solo l’attacco o riscriverlo di tutto punto?
Optò per la seconda soluzione. Per due motivi. In primo luogo perché c’era sempre la possibilità che il suo giornale la pubblicasse. In secondo luogo perché, riscrivendola, sarebbe stato ancora più cattivo. Del resto, non era stato forse lo stesso Roberto a dirgli di andarci pesante? Ferdinando avrebbe soltanto accontentato il collega napoletano.
L’unico fastidio era che a Sciacca non avrebbe trovato un fax. Roberto voleva il pezzo entro le tre del pomeriggio. Lo avrebbe dettato ai dimafonisti. Il solito pezzo telefonato. Ne aveva fatti tanti, di pezzi telefonati, Questo con gli altri.
Quando non c’erano i fax né, tanto meno, i computer, i pezzi si dettavano per telefono ai dimafonisti. Si chiamava il giornale in ‘erre’ – con il costo della telefonata a carico dello stesso giornale – e si dettava. Bisognava scandire le parole, una per una. Il testo veniva registrato su un nastro. I dimafonisti ascoltavano. Pronti a intervenire se una parola e, soprattutto, se un nome non veniva pronunciato con chiarezza. Sui nomi, in realtà, andava fatto lo spelling: prima la pronuncia del nome e poi lo stesso nome scandito vocale per vocale e consonante per consonante. Ogni vocale e ogni consonante, di solito, andava accompagnata con l’iniziale di una città.
Se il nome, ad esempio, era “Salvo”, dopo la pronuncia si cominciava con la litanìa: “esse” come Savona, “a” come Ancona, “elle” come Livorno, “enne” come Napoli e “a” come Ancona. In realtà, Ferdinando aveva sicilianizzato lo spelling. Per lui la “esse” era come Siracusa, la “a” come Agrigento, la “e” era Enna, la “p”, neanche a dirlo, come Palermo. E via continuando. La prima volta il dimafonista napoletano aveva fatto storie. Poi si era abituato.
Alle undici di mattina era già nella sua casa di Sciacca. Due ore dopo i due pezzi erano riscritti. Il primo di circa 120 righe, il secondo di cinquanta righe. Chiamò Napoli in erre dal telefono della pizzeria. A dettarlo ai dimafonisti impiegò più di dieci minuti. Il pomeriggio lo passò a pescare con la canna.
L’indomani mattina, al ritorno da una passeggiata, trovò un messaggio del suo giornale in pizzeria. Il caporedattore voleva essere chiamato. Volevano che interrompesse le ferie per tornare a lavorare? Se lo potevano dimenticare. Ferdinando chiamò il suo giornale in erre.
“Tranquillo – gli disse il caporedattore – non ti sto chiedendo di interrompere le ferie. Ti chiamo soltanto per dirti che domani pubblichiamo il tuo articolo su Menfi”.
Ferdinando era soddisfatto. Al suo giornale se l’erano pensata per un paio di settimane. Poi avevano deciso di pubblicare l’inchiesta. Erano stati corretti. Il servizio sarebbe uscito l’indomani, cioè sabato. Proprio il giorno in cui l’avrebbero pubblicato i napoletani. Almeno questo andava per il verso giusto. Non gli restava che avvertire i suoi amici di Menfi. E così fece.
Come aveva previsto, Ferdinando non ebbe il tempo di rientrare al giornale dalle ferie. Una settimana dopo la pubblicazione dell’inchiesta sui tubi di Menfi, alle 11 di mattina, trovò un messaggio in pizzeria. Era un suo amico e collega che voleva essere chiamato urgentemente. Non gli restava che telefonare. Prese una decina di gettoni telefonici che teneva in casa e raggiunse la cabina. Dall’altra parte del filo, il suo amico non lo fece nemmeno parlare:
– “Ferdinando, devi venie subito”.
– “Che succede?”, aveva chiesto.
– “Succede che siamo tutti in ferie. Per sempre”.
– “Vogliono chiudere il giornale?”.
– “Lo hanno già chiuso. Oggi usciamo con l’articolo che annuncia la fine delle pubblicazioni. Entrambi facciamo parte del comitato di redazione. Insieme dobbiamo parlare con gli editori. Oggi stesso. Devi essere qui tra un paio di ore”.
Ferdinando ebbe il tempo per una doccia. Poi via di corsa in auto. Sulla strada che lo portava a Palermo, mentre guidava, provava a metabolizzare la chiusura del suo giornale. Ma non ci riusciva. Era incredulo e amareggiato. Aveva intuito il finale. Ma un conto è immaginare uno scenario, altra e ben diversa cosa è viverlo. Soprattutto se si perde un lavoro che si ama. Per la prima volta nella sua vita avvertiva un vuoto. Gli sembrava di vivere una vita capovolta. All’incontrario.
Nel Sud, in genere, si vive in famiglia fino ai trent’anni. Il lavoro arriva piano piano, quando arriva e se arriva, tra la fine dei vent’anni o, quasi sempre, dopo i trent’anni. Per Ferdinando era stato diverso. Forse anche in virtù del mestiere che aveva scelto.
Aveva cominciato a scrivere a diciannove anni. Poco più che ventenne, grazie a Vittorio, aveva iniziato a bazzicare il quotidiano del pomeriggio. E da lì non si era più mosso. Certo, si era ‘sciroppato’ sette anni di ‘biondinaggio’. Una faticaccia. Ma mai si era sentito disoccupato. Il giornale era la sua casa. Ora, senza il giornale, si sentiva perso.
Un meridionale all’incontrario: questa era la definizione che si sentiva appiccicata addosso. Aveva cominciato a lavorare ventenne e, appena trentenne, si ritrovava disoccupato.
Appena giunto in redazione, in attesa di parlare con gli editori, aveva chiamato Vittorio al telefono. Vittorio, che era andato via dal giornale qualche anno prima, forse presagendo quello che sarebbe avvenuto, aveva cercato di tirarlo su:
– “Ferdinando, ormai sei un giornalista professionista. E un giornalista professionista non è mai disoccupato. Devi solo trovare dove continuare a scrivere. In fondo, ci sono sempre i napoletani. Continua a scrivere lì. Vedrai qualcosa verrà fuori”.
Già, i napoletani. Anche questo era diventato un tasto dolente. Le notizie che gli arrivavano da quelle parti non erano delle migliori. Antonio, uno dei redattori, gli aveva comunicato che anche lì le cose si mettevano male. Era cambiata la direzione del giornale. Stavano rivedendo tutta l’impostazione dei supplementi.
“Non è da escludere – gli aveva detto Antonio – che chiudano il nostro supplemento”.
“Perché? – aveva chiesto Ferdinando – Da Napoli in giù è l’unica voce che si occupa dell’economia meridionale. Mi sembra una follia”.
“E’ una follia – gli aveva risposto Antonio -. Ma è tutto il nostro Paese che, in questi tempi, è preso da un’incontrollabile follia”.
Luglio era ormai agli sgoccioli. La settimana precedente era scomparso anche Roberto. Ferdinando non aveva chiesto nemmeno spiegazioni. Era ancora tramortito dalla chiusura del suo giornale. Ma, soprattutto, era preoccupato per Federico. Non avendo sue notizie da circa un mese, aveva messo in croce Antonio. Che, un po’ di malavoglia, era riuscito a fargli avere notizie di Federico.
“A Ferdinà, Roberto sta poco bene. Ti manda i saluti. Anzi, mi aveva incaricato di salutarti la settimana scorsa. Ma io mi so’ scordato a dirtelo. Mi ha detto di dirti che si farà sentire lui questo fine settimana a Sciacca. Mi ha detto di dirti così. Mi ha detto che tu avresti capito”.
Il giovedì sera successivo Ferdinando era nella sua casa di Sciacca. Ferdinando avrebbe telefonato venerdì o sabato. Sarebbe rimasto in casa a leggere aspettando la telefonata. Voleva capire cosa stava succedendo.
Venerdì passò tutta la mattina a casa. Di solito, Federico telefonava in un orario compreso tra le undici e l’una. Raramente il pomeriggio.
La mattina passò. E passò anche il pomeriggio. A sera Ferdinando era sconsolato. Non sapeva cosa pensare. Era nervoso. E triste. Rivedeva la sua ormai lunga amicizia con Federico come in un film. La prima telefonata nella redazione del suo giornale che ormai aveva chiuso i battenti. Le telefonate successive, sempre telegrafiche. La prima volta che erano rimasti al telefono per un bel po’ di tempo. Le due o tre telefonate alla settimana con l’amico napoletano che, per anni, avevano accompagnato la sua vita. La confessione delle sue debolezze e delle sue paure. I consigli che per lui erano diventati preziosi. Soprattutto dopo che, qualche anno prima, era venuto a mancare Tonino.
L’amicizia. Un senso di appartenenza e di comunanza. Nel lavoro e nella vita. Tutto mediato dal telefono, certo. Perché, alla fine, non erano mai riusciti ad incontrarsi. I capricci del destino. Uno di qua e l’altro di là. In fondo si stavano pure divertendo. Nell’ultimo anno avevano smesso di mettere nel conto arrivi e partenze per incontrarsi.
– “Lasciamo fare alla vita”, gli aveva detto una mattina Federico.
La frase gli era piaciuta. A Ferdinando gli era sembrato di ascoltare un personaggio di Marotta. O di De Crescenzo.
– “Ma sì – aveva risposto Ferdinando -: lasciamo fare alla vita. Le montagne non si incontrano, gli uomini sì. Noi tanto siamo amici. Del resto io, bene o male, immagino come sei”.
Al telefono Federico l’aveva presa a ridere:
– “Io invece non riesco a immaginarti. Vittorio dice che sei un ex calciatore. Un tipo da un metro e ottanta. Sportivo. Dice che hai i capelli ricci. E che non ti pettini mai. Vai sempre in jeans. E non indossi mai la cravatta. Insomma: qualche elemento ce l’ho. Ma non riesco a proprio a immaginarti”.
L’ultimo anno era volato via con leggerezza. Proposte di articoli sempre accettate. E lunghe chiacchierate. Fino al momento del grande casino non c’erano stati problemi. Poi era arrivato il botto del progetto dinamico. Un’amarezza mediata dal fatto che, finalmente, quell’estate, si sarebbero conosciuti. Quindi la telefonata di Federico che annunciava l’ennesimo rinvio. E, ancora, la seconda telefonata con la quale gli comunicava che andava a Milano per un consulto medico. Poi, il silenzio. Che durava da un mese. Cosa era successo?
L’indomani, verso mezzogiorno, Ferdinando era a casa immerso nella lettura dei giornali. Il suo amico titolare della pizzeria bussò alla porta a vetri e gli disse:
– “Ferdinando, al telefono. E’ il tuo amico napoletano”.
Salto dalla sedia e si precipitò nel locale. Prese il telefono e, al volo:
– “Come stai?”.
Dall’altra parte del filo udì una voce un po’ sofferente. Una voce un po’ diversa da quella che aveva sentito per tanti anni. Ma a colpirlo non fu il tono della voce, ma la rapidità con la quale l’amico parlò con lui.
– “A Federì, non posso stare molto al telefono. Quello che posso dirti è che sto inguaiato. Non chiedermi altro. Ti darò notizie in seguito. Non ho chiamato nessuno. Tu, al di fuori dei miei familiari, sei l’unica persona con la quale sto scambiando due parole. Fammi una cortesia: non chiamare mia moglie. Non la disturbare. Come ti ho detto, mi farò sentire io. Ora ti devo salutare. Un abbraccio”.
Era andata come la prima volta che si erano sentiti: più che un dialogo, era stato un monologo. Ferdinando, a parte i saluti iniziali, era riuscito a malapena a dire “va bene, farò quello che mi chiedi di fare”.
Dopo la telefonata era rientrato in casa. Aveva chiuso la porta e si era seduto in poltrona. In penombra.
Passò agosto. E volò via anche settembre. Ferdinando aveva passato tutta l’estate a Sciacca. Mare, letture e a pesca con la canna. E, a sera, qualche partita a scacchi. A Palermo non gli andava di tornare. A Palermo non aveva più la casa. Per la precisione, non aveva i soldi per pagare l’affitto. Così era tornato a vivere da suo padre. Altra prova della sua vita che ormai andava all’incontrario. Era andato via da casa a circa vent’anni e ci tornava a trent’anni. Per giunta da disoccupato.
Tutto andava a rotoli, in quei giorni. E tutto continuava ad andare a rotoli. Aveva rintracciato Antonio. Che gli aveva comunicato la chiusura ufficiale del supplemento economico. Dal suo giornale ormai chiuso arrivavano altre notizie non belle. Il quotidiano, contrariamente alle voci che circolavano, non avrebbe riaperto. Le indiscrezioni di una possibile riapertura erano state messe in giro per tenere buoni i giornalisti. Che, nella speranza di un’improbabile riapertura, non avrebbero chiesto le liquidazioni.
Come gli sarebbe capitato altre volte, si ritrovava senza un soldo in tasca. Per la liquidazione c’era da aspettare. Forse sei mesi. Forse un anno. Forse c’era anche da combattere a colpi di decreti ingiuntivi e istanze di fallimento. Tutte cose che aveva già messo nel conto. Ma a preoccuparlo non erano i soldi. Di quelli, nei limiti del possibile, aveva imparato a fare a meno. Anzi, vivere senza soldi era la parte più divertente di quella particolare avventura che era la sua vita.
No, non era la mancanza di soldi a intristirlo. Era la storia che stava vivendo che non gli andava giù. Per niente. Non aveva paura del futuro. Confidava sempre nella Madonna. Nei momenti di difficoltà aveva imparato che, per ogni porta che si chiude, ce ne sono sempre altre che si aprono. Basta un po’ di ottimismo. E la fede. Requisiti che non mancavano certo a Ferdinando. Che, da quando era bambino, su consiglio della nonna, aveva imparato a rivolgersi alla Madonna. “E’ l’unica che aiuta tutti”, gli aveva insegnato la nonna. E Ferdinando ci credeva.
Preghiere a parte, c’era una cosa che lo gettava giù. Una cosa non facile da descrivere. Una cosa sfuggente, ma terribilmente presente. Almeno nei suoi pensieri. Non sopportava vedere la vita andare via. E la sua vita non era solo fatta di sé, ma anche di altre persone. Soprattutto delle persone care. Delle persone che gli erano state vicino. E alle quali era stato vicino.
Qualche anno prima Tonino se n’era andato. In un soffio. Dieci anni prima Tonino aveva subito un delicato intervento chirurgico. Bene o male, ne era venuto fuori. Negli anni successivi erano stati inseparabili. Si vedevano ogni giorno. E se non capitava di vedersi, si sentivano almeno una volta al giorno. Non lo lasciava in pace nemmeno in estate. Ad agosto Tonino se ne andava per quindici giorni nel suo paese arroccato sulle Madonne. E Ferdinando si catapultava lì per almeno tre o quattro giorni. Per parlare con lui. Per stare con lui. Per rovistare nel suo archivio. Ricordava quei giorni d’estate a Castelbuono, questo il nome del paese. Contrada San Guglielmo. Montagna. Paesaggi bellissimi. Poi, improvvisamente, la fine. Un vuoto improvviso. Un dolore infinito. Con i ricordi, i tanti ricordi, acuminati come cristalli.
Ottobre passò come il vento. Federico era sempre nella sua casa di Sciacca. Di andare a Palermo non ne voleva proprio sapere. Del resto, che avrebbe fatto a Palermo? Per chi scrivere? Meglio restare a Sciacca. A riflettere.
La mattina si alzava all’alba e andava a passeggiare lungo la spiaggia di capo San Marco. Era uno dei luoghi della sua infanzia e della sua giovinezza. A quell’ora sulla spiaggia di Capo San Marco non c’era anima viva. Passeggiava ripensando alle tante notti passate lì pescando con la lenza a lungo. O ad altre notti passate in barca tra reti e palangaro. Altri ricordi.
Alle nove di mattina, dopo aver sorseggiato il caffè, si ritirava in casa a leggere. Andava avanti così fino all’una. Poi cucinava un abbondante piatto di spaghetti con pomodoro e peperoncino. Mandava giù almeno mezzo litro di vino e andava a letto. Alle quattro e mezza del pomeriggio era già in piedi. Un altro paio di ore a leggere e poi via per un’altra passeggiata lungo i viali del giardino delle Terme di Sciacca. E sul marciapiede del viale che costeggia lo strapiombo sul mare. Poi di nuovo a casa. Quindi una partita a scacchi nel tardo pomeriggio, nel circolo del paese. Poi a cena, in genere pizza e vino rosso. Letto e stessa vita l’indomani.
Tutti i giorni così. Per dieci, venti, trenta giorni. In realtà, aveva perso il conto. L’unica cosa che sapeva era che si era in ottobre. In mente teneva solo i giorni: lunedì, martedì, mercoledì via continuando. Il resto non gli interessava.
Nel Paese infuriava Tangentopoli. In Sicilia impazzava Mafiopoli. E Ferdinando, che non aveva mai amato la mistura tra politica e giustizia, si rifiutava di leggere i giornali. Ovviamente, non guardava nemmeno la tv. Del resto, nella casa di Sciacca la televisione non era mai entrata. Solo la domenica si concedeva il Corriere della Sera. Era il giornale che leggeva da una vita. Un vizio, il Corriere, che gli aveva inculcato suo padre.
– “Alla fine – gli diceva sempre – resta il quotidiano più equilibrato. Non è mai sopra il rigo. Il Corriere della Sera, prima che essere un giornale, è un stile che in Italia è quasi inimitabile”.
Una mattina, dopo la solita passeggiata lungo la spiaggia di Capo San Marco, decise di tornare a Palermo. Lo decise così, all’improvviso.
Non gli andava di andare a casa di suo padre. Così chiamò un amico. Che gli mise a disposizione la sua abitazione.
– “Io sto partendo – gli aveva detto -. Mancherò un paio di giorni. Troverai le chiavi in portineria. La casa la conosci. Vai tranquillo. Ti ricordo che il telefono è staccato. Ci vediamo al mio ritorno”.
Saro, questo il nome del suo amico, era un suo collega. Anche lui era stato licenziato. Normale che il suo telefono di casa fosse staccato.
Saro aveva preso casa in corso Vittorio Emanuele. Era un palazzo ristrutturato con un certo gusto. C’era un grande stanzone con un soppalco dove il suo amico aveva sistemato la stanza da letto. Poi la cucina e il bagno. La casa era piccola. Ma a Ferdinando, chissà perché, sembrava grande. E gli piaceva un casino. Gli piaceva, soprattutto, affacciarsi al balcone. Quasi di fronte c’era piazza Bologni con la statua di Carlo V. A destra si intravedeva Porta Nuova e, sullo sfondo, il Palazzo Reale, la sede del parlamento siciliano. A sinistra, verso il mare, c’era il Cassaro basso con Porta Felice.
Il Cassaro è una delle zone più antiche di Palermo. Nella parte alta c’è il Palazzo Reale. La parte di corso Vittorio Emanuele che va verso il mare viene chiamata Cassaro basso. I palermitani anziani la chiamano anche il Cassaro ‘morto’ per via dell’assenza di negozi.
Quando si trovava in casa di Saro, Ferdinando si affacciava spesso al balcone. Soprattutto nelle giornate di sole, gli piaceva vedere la gente sciamare lungo il corso. E gli piaceva, anche, godersi i riflessi del sole sui tetti e sui palazzi storici che si affacciano su Corso Vittorio Emanuele.
Il primo giorno a Palermo trovò il cielo annuvolato. E il solito caldo. In Sicilia, ad ottobre, è ancora estate. Si va in polo o in maniche di camicia. Al massimo, la sera ci si porta dietro una maglia di cotone.
Il giorno dell'arrivo a Palermo, dopo aver fumato un paio di sigarette affacciato al balcone, decise di recarsi a Mondello, la spiaggia dei palermitani. Anche con il cielo coperto, passeggiare in riva al mare, a Mondello, è sempre piacevole. Pranzò in friggitoria tra panelle, crocchè, raskature e fette di melanzane fritte. Chiudendo con un rigoroso panino con la milza. Rammaricandosi di non aver potuto gustare anche la frittola: grassi con qualche pezzo di carne di maiale, una prelibatezza rintracciabile solo al Capo. Sono le specialità gastronomiche della Palermo popolare. Tutte cose che certi medici non raccomandano. Ma che a Ferdinando piacevano tantissimo.
L’indomani passò la mattina in casa a leggere. Quel giorno, del resto, la pioggia non dava tregua. Una pioggia leggera ma costante. Scese solo per andare in trattoria. Poi di nuovo a casa a leggere e a dormire.
Alle sei del pomeriggio decise di andare in giro. Aveva voglia di un caffè. Non di un caffè qualunque, ma di un caffè con tutti i crismi. E il caffè con tutti i crismi, nella Palermo di quegli anni, si sorseggiava solo in un luogo: al bar Nobel di via Pirandello.
Una volta in strada, si diresse verso Piazza Bologni. La percorse tutta. Poi svoltò a destra e poi ancora a sinistra, imboccando la discesa Raffadali. In breve, si ritrovò nella grande piazza dove c’è la chiesa di Casa Professa abitata dai potenti gesuiti. Da quelle parti della città era ed è ancora l’unico luogo dove è possibile trovare un parcheggio per l’automobile.
Per strada venne trafitto dal solito traffico. Mezz’ora dopo era in Piazza Unità d’Italia, proprio di fronte Villa Sperlinga. Trovare un parcheggio lì non fu un problema. Percorse a piedi la via D’Annnzio e svoltò a destra per via Pirandello. Il bar era ormai a qualche minuto.
Lungo il tragitto in auto che dall’abitazione di Saro l’aveva condotto lì non aveva fatto altro che pensare a Federico. Dall’ultima volta che l’aveva sentito erano passati tre mesi o forse più. L’amico gli aveva detto di non chiamarlo a Napoli. E Ferdinando aveva obbedito. Ricordava ancora le ultime parole:
– “A Ferdinà, mi faccio sentire io”.
E così sarebbe stato. Così doveva andare. Perché così erano sempre andate le cose. Federico sapeva come rintracciare l’amico siciliano. Aveva il numero delle pizzeria di Sciacca. Il titolare della pizzeria era stato catechizzato da Ferdinando:
– “Se telefona Ferdinando e io non sono qua chiama mio padre”.
Federico aveva anche il numero di telefono dell’abitazione del padre di Ferdinando. Se aveva detto che si sarebbe fatto sentire prima o poi avrebbe chiamato. In effetti, qualche volta, non trovandolo in redazione, Federico aveva chiamato suo padre.
Insomma: le coordinate c’erano. Tutto era a posto. Mancava solo la telefonata di Federico. Che, però, non arrivava. Nei giorni precedenti Ferdinando era riuscito a non pensare all’amico che non si faceva sentire. Dire che c’era riuscito è una parola troppo netta. Ci pensava e non ci pensava. Ma quel pomeriggio i suoi pensieri non smettevano di concentrarsi sul suo amico napoletano.
Quel giorno aveva provato a leggere alternando due o tre libri. Ma non c’era niente da fare. Aveva la testa al suo amico. Forse, quel pomeriggio, era uscito per cercare di non pensare. Si era così concentrato sul caffè del bar Nobel. Per Ferdinando quel caffè era una passione. Gli piacevano le tazze dove veniva servito: più grandi del normale, a metà strada tra una tazza da the e una tazza da caffè. Uniche. E poi la cremosità di quel caffè, l’aroma inconfondibile che emanava. E il sapore inimitabile. E la quantità, poi: quel caffè buonissimo sembrava non finire mai. Una delizia. Che si sposava a meraviglia con le prime tre o quattro boccate della Merit.
Quando Ferdinando andava a prendere il caffè al bar Nobel pagava sempre prima. Lo faceva per due motivi. Primo: perché voleva sorseggiare il caffè senza pensare a nulla, men che meno a pagare. Secondo: per accendere subito dopo la sigaretta e godersi le prime boccate in estasi. Solo un vero fumatore può capire i momenti quasi paradisiaci di un caffè perfetto che si sposa con una sigaretta altrettanto perfetta. I medici e i salutisti in generale non possono comprendere l’estasi di questo binomio magico e, a tratti, metafisico.
Chissà, forse quel tardo pomeriggio, concentrandosi sul caffè perfetto del bar Nobel, Federico voleva esorcizzare un pensiero fisso che non riusciva a scacciare dalla propria mente. Entrato nel bar vide che non c’era nessuno. Pagò e si diresse verso il bancone. Meno di un minuto dopo avvertì l’aroma del caffè fumante. La tazza era sempre la stessa. Aggiunse mezzo cucchiaino di zuccherò e mescolò piano. Poi, lentamente, cominciò a gustare il caffè. Lo mandava giù a piccoli sorsi. E ad occhi chiusi. Il sapore dello zuccherò lo riportò alla realtà: si era bevuto tutto il caffè. Era l’amara realtà che si annunciava con il dolce dello zucchero del fondo della tazzina.
Salutò e uscì in strada accendendo meccanicamente una Merit. Si godette la prima, la seconda, la terza boccata. Alla quarta boccata capì che il caffè, benché delizioso come sempre, non l’aveva liberato dal pensiero fisso.
Spenta la sigaretta, si diresse verso Villa Sperlinga. Passò un paio di volte lungo i viali alberati. Poi, senza pensarci su, puntò dritto verso la rivendita di tabacchi. Comprò due pacchetti di Merit e chiese se era possibile acquistare gettoni telefonici. Il rivenditore rispose di sì. Ne prese venti e si diresse verso la cabina. Dentro c’era una signora. Si mise in attesa.
Qualche minuto dopo era dentro la cabina. Conosceva a memoria tutti i numeri telefonici di Federico. Compreso il numero dell’abitazione. Lasciò cadere sette, forse otto gettoni e compose il prefisso che per tanti anni e per un numero infinito di volte aveva accompagnato la sua vita negli ultimi otto anni: 081. Poi fece seguire il numero dell’abitazione. Pensò che stava trasgredendo all’avvertimento dell’amico. Era la prima volta dopo tanti anni che non ascoltava una sua indicazione.
Dall’altra parte del filo il telefono squillò. Il primo squillo. Il secondo squillo. Il terzo squillo. Ebbe il tempo di pensare che al quarto squillo avrebbe messo giù la cornetta come usava fare quando chiamava l’amico dal giornale. Subito dopo il quarto squillo, però, udì la voce di una donna:
– “Pronto, chi parla?”.
– “Buona sera, signora. Sono Ferdinando. Cerco Federico”.
Dall’altra parte del telefono la voce era flebile:
– “Pensavo che la notizia laggiù in Sicilia fosse già arrivata. Sa, Federico…”.