Volete avere successo in America e nel mondo? «E allora: investite in poesia. Leggete quanti più poeti potete. In particolare i versi di Wistawa Szymborska, la polacca Premio Nobel per la poesia. Ricordatevi: la poesia sarà il futuro del marketing».
Il consiglio di Oscar Farinetti ha probabilmente colto di sorpresa gli studenti dell’American University of Rome. Dal geniale fondatore del successo mondiale chiamato Eataly si sarebbero aspettati suggerimenti di business e management. Invece lui ha insistito sulla importanza della poesia, come primo motore per iniziare a sognare e a crescere in qualsiasi attività. E l’applauso finale dei ragazzi ha fatto capire che, ancora una volta, lui ha fatto centro.

Il vulcanico e giovanissimo 67enne piemontese di Alba può quindi dedicarsi con il solito entusiasmo alla sua nuova impresa: dopo avere venduto il 52 per cento di Eataly a un fondo guidato dalla famiglia Bonomi («Per raccogliere energia fresca e capitali»), ha raccolto i fondi necessari per aprire Green Pea, un multibrand interamente ecologico: dal cibo alle auto elettriche. Per ora solo a Torino ma, ci si poteva scommettere, «altre sedi sono in dirittura d’ arrivo». Lui comunque, una parte dei soldi ottenuti dalla vendita, li ha investiti per comprarsi il 100 per cento di Eataly New York. «Perché nella Grande Mela ormai sono anni che ho casa. Ma soprattutto perché è da New York che parte e arriva tutto».
Questo stimolante incontro con i giovani si è svolto a Roma, nella sede della American University of Rome. Lui Farinetti, parlava in videoconferenza. Ma lo schermo non ha sminuito il carisma che ha saputo trasmettere.
L’appuntamento è stato organizzato nell’ambito del primo Festival della Cultura americana. Sì: “primo”. Perché curiosamente, nonostante gli stretti rapporti di lunghissima data fra Stati Uniti e Italia, nonostante la massiccia presenza di tante università USA a Roma, di continui convegni, seminari, rassegne cinematografiche e teatrali, le numerosissime mostre fotografiche, le presentazioni di libri, non si era ancora mai pensato a un evento unificante. Ora ha provveduto il Centro Studi Americani, guidato dall’ex prefetto Gianni De Gennaro. Che ha chiamato a raccolta i maggiori atenei italiani e a stelle e strisce operanti nella Città Eterna: da Roma Tre alla Sapienza, dalla American University of Rome alla John Cabot University, alla Loyola University Chicago. Tanti anche gli sponsor, segno che l’idea ha convinto in partenza: da Intesa San Paolo a Ita Airways (l’erede della ormai defunta e da molti rimpianta compagnia di bandiera Alitalia) alla multinazionale 3M. Importanti anche i media partners: ADN Kronos, APCO, I Say.
Si è parlato di tutto. Il titolo dato al Festival lo permetteva: “Gli Italiani in America”. Per esempio, forse lo sapevamo ma forse no: Machiavelli e Gramsci hanno avuto e tuttora hanno un ruolo importante nella filosofia e nella politica americana. Lo hanno spiegato bene i ricercatori Francesco Maiolo e Flavio Silvestrini. E il cinema? Chi pensava che gli “spaghetti western” fossero guardati con ironia dagli americani che si considerano i veri cultori del mito della frontiera, dovrà ricredersi. La studiosa Virginia Jewiss in un confronto con la collega Carolina Ciampaglia ha dimostrato, powerpoint e filmati a disposizione, che in realtà Sergio Leone grazie anche alle musiche di Ennio Morricone ha saputo cogliere l’essenza dello spirito americano: «Quelle inquadrature di spazi enormi e vuoti, quel senso di solitudine, l’individuo che pur volendo solo vivere in pace deve invece confrontarsi e scontrarsi continuamente con la società e con gli altri, quel senso latente di nostalgia: tutto questo che è tipicamente americano lo hanno saputo cogliere e raccontare magistralmente due italiani».
Tre giorni intensi di incontri. Impossibile raccontarli tutti. Il confronto, il primo giorno, sul diverso impatto dei trend digitali nei sistemi industriali e nella evoluzione della società in Italia e negli USA, meriterebbe da solo un seminario approfondito.
Con diverse angolature Alessandra Santacroce, direttore delle relazioni istituzionali di IBM («A frenare lo sviluppo della sfida dell’imminente futuro, il Quantum Computing, è … la burocrazia italiana. Germania e Gran Bretagna invece procedono spediti»), Paolo Pinzoni, a capo delle strategia di Affari Pubblici della Vodafone («La vera sfida è rendere accessibili a tutti i cittadini, i differenti sviluppi della tecnologia: dalla intelligenza artificiale agli ologrammi fino alle smart city e alla realtà aumentata», Federica Mazzotti, direttore commerciale della azienda farmaceutica Janssen («La sanità digitale offre oggi sempre più strumenti a medici e pazienti») hanno spiegato come Italia e USA possano procedere insieme. Nelle parole di Isabella Cascarano, ministro consigliere per gli affari commerciali dell’ambasciata americana a Roma: «Le società americane possono e devono lavorare al fianco e assieme alle amministrazioni centrali e locali di concerto con le istituzioni italiane».
Già ma perché un Festival del genere è stato pensato e realizzato soltanto ora? Ricorrendo a una certa cautela diplomatica ma che ha lasciato ben chiaro il messaggio, lo ha spiegato a La Voce di New York il professore Daniele Fiorentino, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche di Roma Tre: «Innanzi tutto: non è mai troppo tardi per combattere le immagini stereotipate, da una parte e dall’altra. E poi: per assicurare solidità alla democrazia, è necessario allargare e intrecciare sempre di più le relazioni accademiche e culturali. Soprattutto in questo momento».
Visto il successo, si replica. È stata già annunciata la seconda edizione del Festival per l’anno prossimo. Titolo invertito: “Gli americani in Italia”. Bene. Una sola raccomandazione, anzi: una supplica. Se possibile: scegliere una location unica. Inseguire gli appuntamenti nelle diverse sedi, ovvero girare per Roma, con il traffico, i parcheggi sovraffollati, i mezzi pubblici che lasciamo perdere, rende difficile se non addirittura irritante la fruizione di un evento altrimenti importante.