Come una potente raffica di bora, le elezioni regionali di domenica scorsa in Friuli Venezia Giulia hanno investito in pieno la politica italiana, alimentando l’interminabile dibattito tra le forze politiche, incapaci di trovare la quadra per la formazione di un nuovo governo.
L’atteso trionfo di Massimiliano Fedriga, ex capogruppo della Lega alla Camera, ha infatti ringalluzzito Matteo Salvini, il quale ha rilanciato l’idea di un nuovo esecutivo che faccia perno sulla coalizione di centrodestra a trazione leghista.
Dal canto suo, Luigi Di Maio ha invece subito due dure batoste: in Friuli il Movimento Cinque Stelle ha visto crollare i suoi consensi dal 24,6% delle ultime elezioni politiche a un magrissimo 11%.
Un risultato deludente, che con le dovute distinzioni tra la tornata elettorale regionale e quella nazionale, è stato interpretato come un rigetto della strategia politica “dei due forni” intrapresa da Di Maio nelle ultime settimane.
Non bastasse, il capo politico dei Cinque Stelle ha dovuto assistere al disastroso deragliamento del dialogo con il PD, faticosamente avviato negli scorsi giorni. A sabotarlo, vanificando la riunione della Direzione del partito prevista per domani, è stato l’ex segretario democratico Matteo Renzi, che in un’intervista televisiva concessa domenica a Fabio Fazio ha escluso qualsiasi intesa con i pentastellati, rilanciando una proposta di governo istituzionale.
La netta chiusura di Renzi, seppur comprensibile nella sostanza, date le profonde differenze programmatiche tra M5S e PD, ha scatenato la furiosa reazione di quella parte dei dirigenti democratici favorevoli all’intesa con i pentastellati, da Franceschini a Zingaretti, passando per Emiliano.
Persino il placido reggente Maurizio Martina ha sbottato, dichiarando che “è impossibile guidare un partito in queste condizioni” e che continuando così si “rischia l’estinzione”. Come nella sua migliore tradizione, più che “democratico”, il PD continua a confermarsi un “Partito Diviso”.
Sul fronte grillino, la risposta di Di Maio alle parole di Renzi è stata durissima. In un video pubblicato su Facebook, il capo dei Cinque Stelle ha dichiarato chiusa qualsiasi possibilità di accordo con le altre forze politiche per la formazione di un esecutivo “di cambiamento”, accusandole di “pensare solo al proprio orticello e alle poltrone”.
Al di la dei toni, le affermazioni di Di Maio certificano il suo oggettivo fallimento. La dirigenza Cinque Stelle paga così un prezzo carissimo, sfigurando agli occhi di una larga parte della sua base. Non a caso, in soccorso a un annaspante Di Maio sono accorsi in queste ore due personaggi di peso del Movimento: Alessandro Di Battista e Beppe Grillo, in un tentativo di chiamare alle armi i grillini delusi.
I commentatori più maliziosi suggeriscono che l’unico punto fermo portato avanti dai pentastellati nelle trattative, ancor più dei programmi, fosse la presidenza del consiglio a Di Maio, e che proprio tale impuntatura personalistica abbia vanificato qualsiasi intesa con gli altri partiti.
In realtà, a incrociarsi fatalmente sono stati più veti: l’alt di Di Maio a Berlusconi e il veto di Renzi sui Cinque Stelle, tanto per citarne alcuni. Agli occhi degli italiani, nessuno degli attuali leader ne esce bene. La sola eccezione, in questa fase, è forse Matteo Salvini, l’unico rimasto in sintonia con il sentire della maggioranza dell’elettorato italiano. Abbastanza flessibile da “fare un passo indietro” sulla premiership pur di formare un esecutivo, ma al contempo fermo su alcuni principi, come il rifiuto di accordarsi con il Partito Democratico, bocciato dagli italiani il 4 marzo.
Insomma, nel corso di 58 giorni di estenuanti tira e molla, il leader della Lega è decollato nei consensi, mentre il capo dei pentastellati, a forza di accendere forni, si è bruciato con le sue mani.
Popolarità a parte, l’eterna domanda che continua a echeggiare dopo due mesi rimane immutata: come uscire allo stallo? Le opzioni disponibili non sono ormai molte.
Nel suo messaggio, Di Maio ha proposto di andare al voto a giugno, in una sorta di “ballottaggio” successivo alla tornata del 4 marzo. Una soluzione impraticabile, innanzitutto per un motivo pratico: mettere in moto gli adempimenti necessari a far votare gli italiani all’estero sarebbe impossibile in tempi così stretti. Sergio Mattarella tenterà poi in tutti i modi di evitare il voto prima dell’autunno, dati gli impegni interni e internazionali a cui l’Italia deve far fronte nelle prossime settimane.
L’ipotesi di un esecutivo istituzionale messo in piedi dal Colle è invece osteggiata sia dalla Lega sia dal Movimento, e non avrebbe i voti necessari per tirare avanti.
Le indiscrezioni dell’ultim’ora suggeriscono allora un’altra via d’uscita per Mattarella: conferire un incarico a Salvini o a una personalità di spicco della Lega che tenti di trovare in Parlamento i 50 voti necessari a formare la maggioranza, magari raccattandoli tra i grillini “filoleghisti”.
Anche se avesse successo, però, la mossa porterebbe comunque alla formazione di un esecutivo di transizione, con l’obiettivo di modificare la legge elettorale, adempiere agli oneri internazionali e preparare il Paese a nuove elezioni entro un anno. Se invece la missione fallisse, ci si ficcherebbe di nuovo in un vicolo cieco.
Si tratta di uno schema ardito che, in questo momento sembra essere auspicato solo da Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi e rigettato dal braccio destro di Salvini, Giancarlo Giorgetti, indicato guarda caso come l'”uomo giusto” per guidare un governo di transizione.
L’entrata in campo dell’”arbitro” Mattarella è prevista per venerdì. Fino a quel giorno, l’Italia sarà col fiato sospeso.