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June 16, 2017
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La crisi col Qatar: potrebbe essere la rapina (a mano armata) del secolo?

L'aggressione dell'Arabia Saudita verso Doha accusata di sostenere il terrorismo islamico, apre nuovi scenari

James HansenbyJames Hansen
La crisi col Qatar: potrebbe essere la rapina (a mano armata) del secolo?

Doha, capitale del Qatar. L'emirato qatariota gestisce un fondo di oltre 300 miliardi di dollari

Time: 3 mins read

L’espressione “grasping at straws” in inglese ha il senso di “appigliarsi a qualsiasi cosa”, e viene convenzionalmente tradotta con riferimenti ad arrampicate sugli specchi. Entrambi i modi di dire esprimono una disperata e confusa urgenza. L’Arabia Saudita ha improvvisamente deciso di isolare l’Emirato del Qatar e di espellerlo dal consesso sunnita, basandosi — così pare — su dei Tweet e commenti in libertà del notoriamente volubile Donald Trump. Questa settimana Trump trova che i Qatari siano la fonte ultima del terrorismo islamico, mentre la scorsa voleva abbandonare la Nato e l’altra ancora troncare il commercio tra gli Usa e la Cina.

Ha ragione comunque che l’Emirato dia ospitalità a delle persone disdicevoli. Khaled Meshal, il capo di Hamas fino al mese scorso, abita al Four Seasons di Doha — la capitale — mentre i ribelli del Darfur preferiscono lo Sheraton Grand e l’opposizione siriana scende al Ritz-Carlton. Il leader spirituale della Fratellanza Musulmana, Sheikh Yusuf al-Qaradawi, vi è residente e i talibani afghani mantengono una lussuosa villa di rappresentanza nella città. È vero anche che 10mila americani sono di stanza alla base aerea di al-Udeid, insieme con un centinaio di droni e aerei da combattimento. Il Qatar ospita anche la sorprendentemente liberale Al Jazeera (“Al Jazz” per gli amici), di proprietà della famiglia regnante.

Da tempo non gliene va bene una all’Arabia Saudita. Gli americani hanno fatto finta di non vedere che dei 19 terroristi di al-Qaeda che hanno attaccato le Torri Gemelle, 15 fossero sauditi. Poi gli Sceicchi hanno fatto crollare il prezzo del petrolio, contando di affossare quel “fracking” che metteva a rischio il monopolio Opec. È l’Opec che si è affossata, danneggiando le petroeconomie —compresa quella saudita. Per trovare dei soldi si è pensato di vendere una quota del monopolio petrolifero, la Saudi Aramco, ma nessuno sembra avere granché voglia di comprare. Per dessert si sono cacciati in una guerra—costosa e tutt’altro che vinta—per lo Yemen. Il raddoppio della tassa sulle sigarette non basta certo a pagarla.

Il Qatar è per molti versi il “Lugano” della penisola arabica, una sorta di porto franco dove si possono combinare gli affari in relativa tranquillità mentre le signore si mettono finalmente l’hijab “parigino” e fanno un po’ di shopping negli strepitosi centri commerciali di Doha prima che tutti si rivedano per un civilissimo cocktail serale. Se l’Emirato è, come si dice, il “Club Med” dei terroristi, lo è pure dei Sauditi. Una volta erano invece Londra e Parigi ad accogliere i monarchi esiliati e i rappresentanti dei rivoluzionari. Si calmavano, li trovavi al telefono se c’era bisogno, si potevano scambiare prigionieri, soldi, frequentare locali alla moda ed eventualmente raggiungere degli accordi per finire la violenza.

Ora l’Arabia Saudita aggredisce il suo Lugano. Ci saranno interessanti motivi politici per farlo, alcuni perfino nobili. C’entreranno forse anche le casse incredibilmente pingue del Qatar? Che il fondo sovrano dell’Emirato gestisce oltre 300 miliardi di dollari? Che i Qatari posseggono anche il Paris Saint-Germain, Harrods, grosse fette della banca Barclays, della London Stock Exchange, dell’aeroporto di Heathrow e, come dice il Times, “più di Londra della stessa Regina”? In altre parole, non è che si tratti di un semplice tentativo di operare la più grande rapina a mano armata della storia?

 

Intanto da Doha, un amico mi scrive

Qui a Doha ti segnalo la crescita evidente di segnali di supporto alla leadership: bandiere e soprattutto magliette, cartelloni, stickers sulle auto con la silhouette dell’Emiro. Niente di clamoroso, ma vistoso vista la precedente attitudine di mantenere un profilo molto basso.

Comunque vada la crisi, l’Emiro ne risulterà rinforzato e con maggiore credibilità dopo la discussa presa di potere del 2013.

Ha colpito molto, tranquillizzato e “fidelizzato” le masse di workers , la velocissima riconfigurazione dei flussi logistici, soprattuto alimentari. Ti segnalo scaffali pieni di ogni prodotto, con la Turchia che ha sostituito KSA e un aumento di generi da Iran, soprattutto frutta e verdura. Avrai anche letto dell’importazione con ponte aereo di 4000 mucche da Australia che entro luglio copriranno circa il 40% del fabbisogno locale.

Alla fine il Paese potrebbe ritrovarsi più coeso e indipendente dagli suoi fratelli (fratelli coltelli come diciamo in Italia).

 

 

 

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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