Il silenzio da questa rubrica negli ultimi tempi si spiega con molte attività in corso con i miei studenti del Queens College e del Graduate Center. Il programma Fashion Studies della CUNY si è incrociato a quello di italiano del Queens College, insieme a due progetti di ricerca e pedagogici. Il primo è il Fabric of Cultures. Objects, Memory, Technology, che parte da uno studio iniziato circa dieci anni fa sul rapporto tra i tessuti e gli abiti delle diverse culture, osservando come certe forme e certi motivi fossero ripresi in epoche storiche, contesti geografici e culturali differenti. Si pensi per esempio al caftano, la cui forma a T sembra quasi un oggetto universale e senza tempo: non fa altro che ritornare con stoffe e motivi diversi in tutti i periodi.

Il Fabric of Cultures 2:0 ha ricevuto il supporto del Center for Teaching and Learning del Queens College, un istituto all’avanguardia che promuove nuove ricerche pedagogiche e di ricerca come la nostra. Abbiamo rivisitato il progetto con un’attenzione particolare a degli oggetti precisi, usandoli per dare vita a un percorso scandito da tre lettere e tre forme: la T, come T-shirt e i suoi legami con la storia del cotone e la globalizzazione; la I, come intersezioni e combinazioni di elementi di design, ma anche di culture (un esempio è Antonio Marras); e la P, come pieghe , in quanto è la piega a suggerire il movimento degli abiti indossati, oltre al ritorno e al ritmo, che sono concetti determinanti per capire la moda sia come industria sia come universo simbolico. Queste tre lettere, pensate dapprima in inglese e poi rese in Italiano, insieme formano l’acronimo TIP (T-Tshirt, Intersezioni, Pieghe) e hanno guidato non solo il mio percorso di riflessione nel disegnare i corsi che ho impartito lo scorso autunno al Queens College con FYI e il Dipartimento di Lingue Europee e al Graduate Center, ma anche la riflessione collettiva del team con cui lavoro al progetto digitale e al progetto complessivo.
Le due lingue, italiano e inglese, vivono in questa ricerca fianco a fianco. Alcuni di questi racconti si trovano sul sito web di Fabric of Cultures, ancora in fase di riorganizzazione, ma vi prometto che sarà ancora più bello quando lo visiterete tra un paio di settimane. Appena pronto, ve lo presenterò in questa rubrica. Ora che ne scrivo (in realtà non faccio altro che parlarne da quando lo abbiamo iniziato) mi rendo conto che il principio cardine del progetto è quello della traduzione: traduzione non solo interlinguistica, ma anche tra il digitale e il materiale, tra la foto e la stoffa, tra il tessuto e l’abito, tra un vecchio paio di jeans e tanti altri oggetti in cui questo si può trasformare, come un portatelefono, una borsa ecc. Infatti, nei due corsi tenuti questo autunno, abbiamo intrapreso un viaggio che andava dal libro alle stoffe utilizzate per i nostri progetti attraversi workshop tenuti da alcuni artisti: tra questi Tabitha St. Bernard, designer independente che pratica lo “Zero waste”, ovvero il minimo spreco o il non spreco per realizzare i suoi vestiti. Bernard ci ha portato i resti delle stoffe con cui aveva lavorato alla sua collezione, con cui gli studenti hanno realizzato collane, borse, sciarpe, un vestito e un sacchetto per conservare la lavanda (quest’ultimo l’ho fatto io).
Abbiamo parlato di globalizazzione, di diritti dei lavoratori dell’industria della moda, del piacere e dell’orgoglio del fare, di giustizia sociale, estetica e anche dei significati del Made in Italy con il direttore dell’Italian Trade Agency (ITA) Maurizio Forte, che ci ha spiegato le mansioni e le sfide di un ufficio governativo che promuove i prodotti italiani all’estero. Abbiamo poi discusso sul rapporto emozionale degli oggetti e degli abiti, ma anche di sostenibilità e nuove tecnologie. Di tutto questo riparleremo in un convegno il prossimo 4 maggio, un’altro momento di riflessione prima della mostra all’Art Center del Queens College, che sarà aperta dal 13 settempre fino a metà dicembre. In questo ambito organizzeremo la prima edizione del festival del Made in Italy: cinema, arts & culture, di cui vi darò notizia un pò più avanti.


Il secondo progetto è collegato al Fabric of Cultures 2:0, avendo a che fare con la ricerca e la pedagogia, con la moda Italiana e il made in Italy. C’è un’altra iniziativa molto interessante che abbiamo portato avanti con gli studenti lo scorso 17 febbraio: un seminario di formazione per gli insegnanti, organizzato insieme allo IACE e al Center for Teaching and Learning del Queens College. Obiettivo del seminario era dimostrare come fosse possibile impartire una lezione di lingua per livelli medio/avanzato servendosi di uno strumento come la moda. Per questo è stata fondamentale la partecipazione di tre relatori: Kelly Paciaroni, insegnante di liceo e laureata con un Master in Italiano al Queens College; Antonino Bonanno, nel programma

di MA in italiano e insegnante al Queens College; e Nicole Paronzini, dottoranda presso l’Italian Studies e Fashion Studies al Graduate Center della CUNY. Paciaroni ha usato come riferimento una novella di Luigi Pirandello intitolata La Marsina Stretta; Bonanno ci mostrato un quadro in cui Giuseppe Garibaldi indossa un paio di jeans, come pretesto per parlarci della loro storia; infine Paronzini ci ha mostrato il significato identitario del vestire nella letteratura contemporanea della migrazione.
Un percorso dunque affascinante, con una grande ricchezza di strumenti e possibilità che svilupperemo in un corso pilota. Sono intervenuti per i saluti iniziali, il professor Carlo Davoli, director of Education al Consolato Italiano e Ilaria Costa, executive director dello IACE. Questa iniziativa per la promozione della lingua e della cultura italiana fa parte delle attività del nostro MadeinItalyLab con sede al Queens College e di cui stiamo sviluppando il sito e le iniziative a venire. Vi aspettiamo al Queens College per Italian Studies e al Graduate Center per Fashion Studies con il nostro laboratorio di ricerca e di pedagogia che pratica l’interdisciplinarità, le nuove metodologie e il rigore accademico.
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