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La vittoria di Trump e il riscatto del Partito democratico

La presidenza del tycoon potrebbe aiutare i democratici finalmente a cambiare?

Massimo ManzobyMassimo Manzo
democratici americani Bernie Sanders

Sostenitori di Bernie Sanders durante le primarie democratiche poi vinte da Hillary Clinton

Time: 3 mins read

Con 304 voti a suo favore contro i 232 di Hillary Clinton, lo scorso 19 dicembre Donald J. Trump ha compiuto uno degli ultimi passi verso la presidenza degli Stati Uniti.

Il voto dei grandi elettori nei singoli stati ha rispecchiato alla fine le aspettative, nonostante le molte pressioni (che sono arrivate in certi casi a dirette minacce) con cui alcuni hanno cercato di convincerli a scegliere un candidato diverso da Trump.

Ora, prima della cerimonia ufficiale dell’inauguration  del 20 gennaio a Washington, con la quale prenderà i pieni poteri giurando sulla Bibbia, la palla passerà al Congresso, che si riunirà in seduta congiunta il 6 di gennaio per formalizzare il risultato. Ma si tratta di mere formalità.

I recenti avvenimenti, invece, gettano una luce sinistra sul clima politico che si respira per ora in America. Il paese è spaccato a metà, con una parte della popolazione incapace di accettare il fatto che il tycoon abbia potuto vincere legittimamente le elezioni e disposta a ipotizzare fantasiosi escamotage per evitare che Trump raggiunga la presidenza.

Il tutto, naturalmente, è amplificato dall’anomalia dei risultati dell’8 novembre, in cui la differenza tra il voto popolare e il sistema del collegio elettorale si è fatta sentire come non mai.

Nel caso le parti fossero state invertite, ne siamo sicuri, la reazione del magnate di New York e dei suoi sostenitori sarebbe stata molto simile. Tuttavia, ironia della sorte, mentre le temute defezioni in campo repubblicano si sono limitate a soli 2 elettori del Texas, è stata inaspettatamente Hillary Clinton a ricevere meno suffragi del previsto, con tre voti dei suoi (dallo stato di Washington) finiti all’ex segretario di Stato repubblicano Colin Powell, uno al dissidente sioux Faith Spotted Eagle e infine uno (dalle Hawaii) a Bernie Sanders.

Nel Maine, poi, è passata quasi sotto silenzio la posizione presa da David Bright, un grande elettore che ha votato per Sanders al primo ballottaggio, giustificando la scelta con uno splendido discorso, utile a capire le sfide che nei prossimi tempi attendono il partito democratico.
Nel suo intervento, Bright ha sottolineato che il suo voto non era un gesto di protesta, ma un atto simbolico per ricordare che il suo partito non avrebbe abbandonato in futuro le migliaia di giovani delusi dal risultato delle primarie democratiche, e anzi li avrebbe accolti a braccia aperte.

Diversa è la situazione se vista dalla prospettiva dell’establishment del partito dell’asinello, che oltre a uscire devastato dal risultato elettorale, sembra ancora incapace di fare una seria autocritica sulla sua natura, e in questi giorni ha provato a imputare la vittoria di Trump a fattori esterni più che alla sua incapacità di appoggiare il leader giusto.

A complicare le cose ci si è messa la settimana scorsa anche Hillary, che invece di ritirarsi a vita privata, è uscita allo scoperto in un discorso pronunciato davanti ai propri donors (altro che semplici elettori, che continuano ancora ora a essere in secondo piano per la ex first lady).

La ex candidata democratica si è detta convinta che la sua sconfitta debba essere imputata a Comey e Putin più che a se stessa. Intendiamoci: sia l’intervento dell’FBI sia il probabile hackeraggio russo hanno probabilmente influenzato la consultazione elettorale, ma l’autoassoluzione della Clinton è una posizione degna del miglior Trump, noto per la sua abitudine a scaricare sempre la responsabilità altrove.

Al contrario, polemiche del genere da parte della dirigenza democratica hanno uno scopo preciso: evitare la riforma interna, che dovrebbe portare a una svolta sostanziale in senso progressista. In questo momento è infatti in corso una battaglia per la presidenza del Comitato Nazionale Democratico, che vede favorito il sanderiano Keith Allison.

Insomma, in fondo la vittoria di Trump rappresenta una grande occasione per i democratici, i quali, oltre a organizzare un’opposizione seria (e non isterica) sulle questioni importanti, dovrebbero tornare a rappresentare in pieno la working class, recuperando le origini populiste e jacksoniane del proprio schieramento e sbarazzandosi finalmente della corrente liberista, catorcio degli anni ’90 rigettato in pieno dagli elettori a novembre.

D’altronde, i dati demografici sono tutti dalla parte dell’asinello, a patto di avere il coraggio di cambiare veramente.

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Massimo Manzo

Massimo Manzo

Di madre americana e padre siculo, nasco tra le bellezze della Sicilia greca e gli echi del sogno americano. Innamorato della Storia, che respiro fin da bambino, trasferisco me e la mia passione a Roma. Qui, folgorato lungo la via, mi converto al giornalismo storico e di analisi geopolitica, “tradendo” così la laurea in legge nel frattempo conseguita. Appassionato di viaggi archeologici, oltre che della musica dei Beatles e dei campi da tennis, collaboro come giornalista freelance con più riviste di divulgazione, tra cui InStoria e Focus. Oggi mi divido tra la natia Sicilia e la città eterna, sempre coltivando l’amore per gli States.

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